giovedì 26 novembre 2009

Israele, “luce fra le Nazioni”!


di Gilad ATZMON, 21/11/2009. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala








 
 “Israele è la luce fra le nazioni” recita la Torah*. Infatti lo è, ma non proprio così come lo afferma la Torah. Israele supera tutti in molti comportamenti. Ad esempio, nel terrorizzare le popolazioni civili e nel praticare alcune delle tattiche omicide più devastanti nei confronti dei vecchi, delle donne e dei bambini. 
Ieri, il Jerusalem Post  riportava che il Presidente della Commissione Militare della NATO, Ammiraglio Giampaolo Di Paola, si era recato in Israele all’inizio di questa settimana per esaminare “le tattiche e i metodi delle forze armate Israeliane (IDF) che l’Alleanza militare potrebbe utilizzare per le sue azioni di guerra in Afghanistan.”
Un ufficiale superiore della Difesa Israeliana aggiungeva: “La prima cosa che attualmente sta nei pensieri della NATO è come vincere in Afghanistan…Di Paola era veramente impressionato dall’IDF [acronimo per Israel Defense Forces, traduzione inglese del nome ufficiale dell’esercito israeliano, Tzva HaHagana LeYisra'el], come la più importante fonte di informazioni, data la nostra esperienza operativa.” 
Vorrei consigliare all’ufficiale Israeliano così come all’Ammiraglio Di Paola di frenare un pochino il loro entusiasmo. L’IDF non vince una guerra dal 1967!
Sì, ha ammazzato molti civili, ha distrutto molte città, ha fatto patire la fame e morire di fame milioni di persone, ha commesso crimini di guerra con cadenza giornaliera per decenni, cionondimeno non ha più vinto una guerra.
Per questo, l’IDF non può davvero insegnare alla NATO come vincere in Afghanistan. Se i generali della NATO sono tanto stupidi da seguire le tattiche dell’IDF, come i generali di Israele, cominceranno a vedere accumularsi contro di loro imputazioni per crimini di guerra.
A tempo debito, costoro potranno essere anche abbastanza fortunati da condividere le loro celle con qualche Israeliano, quando la giustizia farà il suo corso.  

L’Ammiraglio Di Paola ha passato due giorni con lo scellerato Comandante di Stato Maggiore dell’IDF Tenente Generale Gabi Ashkenazi, l’uomo che ha guidato l’IDF all’interno di Gaza, lo scorso dicembre. 
Nello stato ebraico, la visita dell’Ammiraglio Di Paola ha suscitato un vero entusiasmo. È stata considerata come un’ulteriore rassicurazione di ‘business’, un’ottima faccenda, come al solito. La visita di un alto ufficiale superiore della NATO ha indotto gli Israeliani nella convinzione che nessuno sta prendendo in considerazione il rapporto Goldstone.
“La visita di Di Paola è significativa,” afferma il Jerusalem Post “dal momento che arriva proprio quando l’IDF è sottoposta a critiche crescenti sull’onda del Rapporto Goldstone in relazione all’Operazione Piombo Fuso e contemporaneamente alla decisione da parte della Turchia, un membro della NATO, di escludere Israele dalle esercitazioni e manovre aeree congiunte.”
Comunque, diventerebbe di primaria importanza sviluppare un ragionamento sugli interessi reciproci che stanno emergendo fra le due parti, Israele e la NATO.
“Durante il loro incontro di mercoledì, Ashkenazi e Di Paola hanno discusso le modalità di promuovere vincoli di natura militare fra Israele e la NATO ed un progetto per inserire un vascello della Flotta Militare Israeliana in “Active Endeavor”, una missione NATO, istituita dopo gli attacchi dell’11 settembre, secondo la quale navi militari della NATO pattugliano il Mediterraneo per prevenire traffici illegali connessi al terrorismo.”

Infatti questa è una mossa indispensabile per Israele. Al momento, la Marina Militare Israeliana è operativa nel Mediterraneo come un branco di Pirati Yiddish (Yidisshe Piraten), che assaltano, dirottano illegalmente e rapinano navi in acque internazionali.
Quindi, operando sotto le bandiere della NATO, gli Israeliani sarebbero in grado di terrorizzare qualsiasi vascello in alto-mare, in nome dell’“Occidente”.
Per lo stato ebraico, questo consisterebbe in un passo avanti decisamente importante.
Fino ad ora, gli Israeliani hanno commesso atrocità in nome del popolo Ebraico. Allora, operando sotto le bandiere della NATO, gli Israeliani sarebbero in grado di esercitare la loro pirateria in nome dell’“Europa”. Questa mossa è un’ulteriore prova della transizione spirituale ed ideologica all’interno del Sionismo, dalla “Terra Promessa” al “Pianeta Promesso”.
Mentre Israele ha la disperata necessità di una legittimazione da parte della NATO, la NATO è molto più modesta. Tutti i suoi bisogni consistono nell’imparare tattiche e conoscenze.
Per qualche ragione, insiste ad apprendere da Israele come infliggere sofferenze a popolazioni civili. Già, più sofferenze, di questo si tratta, infliggere più sofferenze! 
“Ufficiali della Difesa della NATO hanno dichiarato che Di Paola ha utilizzato questi incontri con l’IDF per acquisire nuove tecnologie che possono avere applicazione nella guerra in Afghanistan”. Il Jerusalem Post riferisce che Israele è “leader riconosciuto nel mondo nello sviluppo di mezzi blindati specializzati per proteggere da dispositivi esplosivi di emergenza (IED), altrimenti noti come ‘bombe da bordo strada’.”
Infatti, questo è il motivo. I generali israeliani da tanto tempo si sono resi conto che i loro giovani soldati tanto preziosi preferiscono stare nascosti all’interno dei loro mezzi corazzati piuttosto che scontrarsi a viso aperto con il “nemico”, vale a dire con la popolazione civile, con ragazzi, anziani e donne.
Ma questo non è bastante; Di Paola era anche interessato alle “capacità e ai metodi Israeliani di raccolta informazioni tramite attività spionistiche che l’IDF usa quando opera in centri popolati da civili.”
Di Paola sottolineava come “la NATO e l’IDF stavano affrontando le medesime minaccie – la NATO in Afghanistan ed Israele nei suoi conflitti con Hamas ed Hizbullah.”
Vorrei ancora consigliare all’Ammiraglio Di Paola di leggersi immediatamente e con molta attenzione il Rapporto Goldstone, in modo da potere ben afferrare le eventuali conseguenze legali strettamente personali, una volta che cominciasse ad introiettare “le tattiche israeliane”.    
Se l’Ammiraglio Di Paola desidera essere utile al suo esercito, dovrebbe davvero visitare Israele, ma dovrebbe incontrare anche ogni criminale di guerra, sia politico che militare, in modo da conoscere esattamente quello che NON deve fare. 
Le possibilità per la NATO di vincere in Afghanistan non sono limitate, a dire il vero sono esaurite. La NATO può solo perdere. Molti analisti di cose militari, e generali ricchi di esperienza, si rendono conto che la guerra è già persa. La NATO ha procurato sufficienti carneficine al popolo Afghano senza centrare alcuno dei suoi obiettivi militari o politici. 
Dato che Israele nel 2006 in LIbano ha subito una severa umiliazione da una esigua formazione paramilitare Hizbullah ed ha mancato di conseguire i suoi obiettivi militari nell’Operazione Piombo Fuso nel corso della sua guerra genocida contro Hamas, non vi è nulla da imparare da Israele da   parte della NATO.
Dovesse la NATO procedere ad implementare le tattiche dell’IDF, tutto questo produrrebbe una drammatica riduzione della sicurezza in tutta Europa e in America. 
Se noi abbiamo interesse alla pace e vogliamo che la pace prevalga, quello che dobbiamo fare è di allontanarci quanto più possibile da ogni relazione di ordine spirituale, ideologico, politico e militare che abbia qualche affinità con il Sionismo, con Israele e le sue lobbies.
Infatti, se “Israele è la luce fra le nazioni”, qualcuno ci deve spiegare perchè le sue prospettive di pace si sono fatte sempre più scheletriche e tenebrose. 
La mia risposta è veramente semplice. Israele può essere vista senza difficoltà come la “luce delle Nazioni”, fino a quando si impara da Israele ciò che non si deve fare. 
Di fatto, questo è il messaggio trasmesso a noi dai grandi profeti dell’Umanità, Gesù e Marx. “Ama il tuo vicino, sta in mezzo agli altri, trascendi te stesso al di là della tua tribù (al di là del tuo particolare!) e proiettati verso il regno dell’Universale.” Ed è esattamente questo che gli Israeliani non riescono ad afferrare. Per un cumulo di ragioni, loro amano se stessi quasi quanto odiano i loro vicini.
Se l’Ammiraglio Di Paola desidera catturare i cuori e le menti del popolo afghano (piuttosto che “vincere una guerra”) dovrebbe in primo luogo imparare a voler bene. Questo è un qualcosa che non potrà imparare a Gerusalemme o a Tel Aviv. Gaza, Ramallha e Nablus probabilmente promettono meglio! 
Io, il SIGNORE, ti ho chiamato in giustizia; e ti prenderò per mano e ti formerò per essere alleanza del popolo e luce per i Gentili » (Isaia 42:6)



La NATO invita Israele ad un appoggio navale  
Si sono consolidati i legami fra Israele e la NATO con la decisione della NATO di utilizzare la flotta militare di Israele con funzioni di assistenza.
Israele invierà una delle sue navi da guerra nel Mediterraneo per unirsi alla forza navale della NATO nella missione “Active Endeavor”, per pattugliare il Mediterraneo Orientale e tenere sotto controllo il naviglio, per rilevare, impedire le attività terroristiche e proteggere da queste, anche abbordando navi se necessario. La missione viene condotta dal Comando Settore Marittimo dell’Alleanza, di base a Napoli, Italia, che utilizza una Task Force dispiegata nel Mediterraneo.
Un ufficiale di collegamento Israeliano è già presente nella forza.
Il Segretario Generale Aggiunto della NATO Claudio Bisogniero sarà in Israele lunedì o martedì (23-24 novembre) della prossima settimana. Bisogniero guiderà una delegazione che condurrà colloqui ad alto livello con ufficiali Israeliani concernenti la partecipazione di Israele nel Mediterraneo.
Durante la sua vista a Tel Aviv e a Gerusalemme, Bisogniero incontrerà il vice Primo Ministro e Ministro degli Affari Esteri di Israele, Avigdor Liberman, il Presidente e membri della Commissione della Knesset per gli Affari Esteri e la Difesa, il Sottosegretario alla Difesa Matan Vilnai, il Capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele dr.Uzi Arad, ed altri funzionari governativi. Se tutto procederà secondo i piani, con tutta probabilità la nave da guerra Israeliana andrà a raggiungere la forza navale della NATO all’inizio del prossimo anno. 
Sono stati raggiunti accordi per le disposizioni da assegnare al vascello israeliano, in modo da evitargli missioni che possano interessare acque territoriali arabe. 

Fonte: Macau News.Net del 21 novembre 2009 







mercoledì 25 novembre 2009

Le mani sulle terre: un altro assalto all’Africa


di Ama BINEY. Tradotto da  Curzio Bettio, Tlaxcala
Ama Biney scrive per “Pambazuka News” sulla corsa ad acquisire terra in Africa da parte di governi ed investitori privati stranieri, alimentata dalle apprensioni per la sicurezza alimentare mondiale a fronte delle variazioni climatiche e della instabilità dei prezzi degli alimentari sui mercati internazionali. Avvertendo che “i rischi politici ed economici di queste acquisizioni di terre sono colossali e vanno ben oltre a qualsiasi profitto,” la Biney conclude che “i governi Africani dovrebbero procurare la sicurezza e la sufficienza alimentare primariamente per i loro popoli.”

Come è possibile che nel XXI secolo, in un mondo che ha la potenzialità di sfamare ogni essere umano sul pianeta, la maggioranza dei popoli dell’Africa e del resto del Sud del Mondo, che è povera – mentre l’obesità spicca il volo in Occidente – stia soffrendo in modo dilagante la fame?
Inoltre, perché di recente vi è stato un “accaparramento delle terre” in Africa da parte di paesi ricchi? La risposta immediata alla prima domanda sta nella distribuzione ineguale e nel controllo delle ricchezze del mondo e del loro possesso in poche mani. La risposta alla seconda domanda è strettamente collegata alla prima e costituisce il punto focale di questo articolo. La fretta recente, vale a dire di questi ultimi 12 mesi, di acquisire terra in Africa ha la sua origine in un numero di fattori relativi alle preoccupazioni per la sicurezza alimentare globale, in particolare suscitate dall’aumento dei prezzi mondiali dei cereali fra il 2007-2008, aumento che ha scatenato sommosse per il cibo in più di 20 paesi in tutto il mondo, fra i quali Haiti, Senegal, Yemen, Egitto e Camerun. Hanno contribuito allo stato di questi avvenimenti l’instabilità dei prezzi sui mercati internazionali e la speculazione sui prezzi a termine delle derrate alimentari. I paesi produttori di risorse alimentari hanno imposto dazi doganali sui raccolti di prodotti di base per minimizzare le quantità che venivano esportate. La conseguenza è stata un ulteriore aggravamento della situazione.
I Paesi del Golfo, Arabia Saudita, Bahrain, Oman, Qatar (che controllano il 45% del petrolio mondiale), constatavano di non essere più a lungo in grado di dipendere da mercati regionali e globali per procurare alimenti alle loro popolazioni. Perciò si sono affrettati ad accaparrarsi terre in Africa e sono i pionieri di questo agri-colonialismo per assicurare risorse alimentari alle loro popolazioni. Le implicazioni geopolitiche di ciò hanno avuto l’effetto che il cibo è probabilmente diventato l’ambita materia prima, al pari del petrolio, in un prossimo futuro.
Altri fattori comprendono il fallimento nell’affrontare le congiunture ambientali, come le variazioni climatiche, che hanno causato le carenze idriche e siccità in molti posti nel mondo. L’impatto della siccità in zone come la Rift Valley per il popolo Masai in Kenya e per i contadini del Punjab in Pakistan è stato totalmente disastroso.
In breve, questi sviluppi globali hanno indotto paesi come la Cina, la Corea del Sud, l’Arabia Saudita e il Kuwait, che hanno insufficienti terreni da arare, a ricorrere ad investimenti agricoli in Africa. A questi paesi si sono aggiunti la Malaysia, Qatar, Bahrain, India, Svezia, Libia, Brasile, Russia e l’Ucraina.
Visto che la popolazione mondiale è proiettata verso una crescita da 6 miliardi a 9 miliardi nel 2050, le potenzialità del pianeta a produrre in modo tanto abbondante come è avvenuto finora iniziano a ridursi. Il mondo deve cambiare le modalità di produzione del cibo, di cui molto viene consumato nelle zone più ricche del pianeta, e rallentare il relativo impatto negativo sull’ambiente. In caso contrario, le crisi generate dall’insicurezza alimentare a causa dell’aumento della domanda diverranno catastrofiche negli anni a venire, quando la produzione di cibo non terrà più il passo con l’aumento della domanda.
Questo è evidente per paesi come l’Arabia Saudita che non possono più a lungo procurare cibo alle loro popolazioni, e per correre ai ripari cercano aggressivamente di acquisire terreni in altri paesi. 


martedì 17 novembre 2009

Benvenuto, compagno Maobama


di Pepe ESCOBAR, 16/11/2009. Tradotto da Manuela Vittorelli, Tlaxcala
Originale: Welcome, comrade Maobama

PECHINO – Caro compagno Maobama,

È un grande onore riceverla qui nella capitale settentrionale del Regno di Mezzo e vederla rendere omaggio al cuore del mondo multipolare del XXI secolo.

Ci scusi se ci discosteremo per un po' dalle sottili regole della diplomazia, ma visto che ammiriamo la sua integrità, la sua onestà e le sue magnifiche doti intellettuali ci permetta di rivolgerci a lei con una certa franchezza.

Innanzitutto, le nostre congratulazioni per il successo sul mercato cinese de Il coraggio della speranza, che ha già venduto 140.000 copie. Ma ci scusi se non potremo crogiolarci nell'ardore delle folle stupefatte e infuse di “coraggio della speranza” come a Berlino, in Ghana, al Cairo, a Londra o a Parigi. Di certo Sasha e Malia sarebbero entusiaste se lei riuscisse a comprare a Houhai per pochi poveri yuan una maglietta commemorativa del compagno Maobama. La casacca e il berretto grigioverdi della Rivoluzione Culturale le donerebbero moltissimo.

Siamo d'altronde molto lieti che lei si sia appena definito “il primo presidente americano del Pacifico”, vantando perfino un fratellastro che risiede nella nostra prosperosissima zona economica speciale, lo Shenzhen.

Notiamo un'interessante convergenza tra “Pacifico” e la nostra dottrina dell'heping jueqi, “ascesa pacifica”. In fondo siamo tutti pacifisti; se conosce la nostra dottrina saprà che spiega chiaramente perché la Cina non rappresenti una “minaccia” per gli Stati Uniti. Dopo tutto, la nostra spesa militare è inferiore del 20% alla vostra, e molto più bassa di quelle di Giappone, India e Russia messi insieme.

Per quanto riguarda la nostra vena pacifista, il Presidente Hu Jintao – con il quale ha avuto una serie di approfondite discussioni – l'ha evidenziata molto chiaramente già durante l'amministrazione del suo predecessore George W. Bush, annunciano i suoi “quattro no” (no all'egemonia; no alla politica della forza; no alla politica dei bocchi; no a una corsa agli armamenti) e i suoi “quattro sì” (sì alla costruzione della fiducia; si all'attenuazione delle difficoltà; sì allo sviluppo della cooperazione; sì a evitare lo scontro).

Abbiamo notato che ha anche scelto di definirci un “partner essenziale” nonché un “competitore”. Sì, siamo molto competitivi. Sta praticamente nel DNA, quando si è stati una grande potenza mondiale per 18 degli ultimi 20 secoli. Se la dottrina della “rassicurazione strategica” elaborata dai vostri think tank significa rispettare anche il nostro spirito competitivo oltre ai nostri usi e principî, di certo per noi non ci sono problemi.

A proposito, siamo estremamente lieti che sabato scorso abbia scelto Tokyo, in Giappone, per rassicurarci sul fatto che “gli Stati Uniti non vogliono contenere la Cina”. Ma ci chiedevamo se i suoi generali – che praticano avidamente la dottrina del dominio ad ampio spettro – la stessero ascoltando.



Caro compagno, ci sono alcune cose che dobbiamo chiarire subito. Non intendiamo piegarci alle pressioni degli Stati Uniti sulla nostra politica monetaria. Ascolti Liu Mingkang, presidente della Commissione cinese di controllo sulle banche. Nel corso di una conferenza svoltasi qui ha Pechino ha appena spiegato che un dollaro molto debole e tassi di interesse americani molto bassi stanno creando “rischi inevitabili per la ripresa dell'economia globale, soprattutto delle economie emergenti”, e questo “ha un grave impatto sui prezzi degli asset globali e incoraggia la speculazione sui mercati azionari e su quelli immobiliari”. Temiamo che, più che rappresentare soluzione, voi facciate parte del problema. Se le capitasse di incontrare delle persone normali, per le strade di Pechino – oh, le scoccianti regole dei servizi di sicurezza – le chiederebbero perché la Cina debba ascoltare i predicozzi americani quando gli Stati Uniti stampano dollari come pazzi e si aspettano che la Cina gli regga il gioco.

Per quando riguarda la nostra parte del mondo, speriamo che abbia l'occasione di apprezzare la ragionevolezza dei nostri principî economici, dimostrata dalla crescita della produzione industriale, delle vendite al dettaglio e degli investimenti in capitale fisso e da una deflazione moderata, come esposto da Sheng Laiyun, portavoce dell'Ente Nazionale di Statistica. Nel 2009 la nostra economia crescerà dell'8%. Perché? Perché abbiamo trascorso gli ultimi 11 mesi a lavorare 24 ore al giorno, investendo produttivamente nella nostra economia, perfezionando la nostra politica monetaria e lanciando provvedimenti fiscali per sostenere alcuni settori industriali. Prevediamo un boom dei consumi fino al prossimo capodanno cinese, il 14 febbraio 2010. Dunque la nostra priorità è continuare a crescere; poi potremo pensare a svalutare lo yuan.

Caro compagno, siamo certi che si meraviglierebbe della potenza dei nostri tre maggiori settori industriali. È un peccato che non abbia avuto il tempo di visitare il Delta del Fiume delle Perle, la fabbrica del mondo, il nostro centro manifatturiero regno di infinite catene di montaggio. Avrebbe anche potuto dare un'occhiata al Delta dello Yang-Tze – cuore della nostra industria ad alto impiego di capitale e della produzione di automobili, di semiconduttori e di computer. E se solo avesse avuto il tempo di farsi un giro a Zhongguancun, fuori Pechino: la nostra Silicon Valley.

Una semplice occhiata a uno dei nostri quattro enormi complessi info-tecnologici, pieni di piccole imprese e di giovani industriosi, motivati e dall'eccellente formazione, le farebbe capire come la tecnologia sia diventata il nuovo oppio della Cina (senza guerra annessa, come quella impostaci dall'Impero Britannico nell'Ottocento). Ci fa sognare un tempo in cui le innovazioni tecnologiche nasceranno in Cina per poi diffondersi nel mondo. Sì, avremo anche una forza lavoro a buon mercato, ma gran parte di noi ha una forza lavoro straordinariamente motivata, regolamentata da buoni criteri sanitari e scolastici, dotata di un'immensa disciplina e pronta a lavorare senza sosta per il raggiungimento degli obiettivi produttivi.

Caro compagno, passiamo a questioni più controverse. A proposito di quella vostra piccola guerra in Afghanistan. Ormai vi sarete accorti che è stata la Cina a vincere la “guerra al terrore”. E ciò spiega ampiamente perché la Cina sia ora molto più influente degli Stati Uniti in Asia Orientale e in molte altre parti del mondo.

Capirà che finché il Pentagono è tutto impegnato in Asia Occidentale dobbiamo stare molto attenti. Seguiamo attentamente le strategie elaborare dai vostri think tank. Ci diverte soprattutto la strategia del nostro vecchio amico Henry Kissinger, che propone di integrare la Cina in un nuovo ordine mondiale imperniato sull'asse statunitense: in fin dei conti, questo equivale ancora all'egemonia americana. Ci sono altri e ben più preoccupanti aspetti insiti nell'accerchiamento della Cina da parte di un sistema di basi militari e da un'alleanza militare strategica controllata dagli Stati Uniti: di fatto, una nuova guerra fredda. Non possiamo rispettare questa strategia, giacché può solo portare alla frammentazione dell'Asia e del Sud del mondo.

Stia certo che siamo in grado di gestire da soli sia la Corea del Nord che l'Iran, armoniosamente e senza scontri. E per tornare all'Afghanistan, riteniamo che la migliore soluzione dovrebbe essere individuata nell'ambito dell'Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO), della quale siamo cofondatori insieme alla Russia. Questo è un problema asiatico – in termini sia di narcotraffico che di fondamentalismo religioso – che andrebbe dibattuto e risolto nella cerchia delle potenze asiatiche.

Caro compagno, si sarà forse accorto che il Consenso di Washington è in tutto e per tutto morto. Ciò che è emerso è quello che potremmo chiamare Consenso di Pechino. La Cina ha dimostrato al Sud del mondo che “esiste un'alternativa”, una “terza via” fatta di sviluppo economico indipendente e di integrazione nell'ordine mondiale. Abbiamo dimostrato che, diversamente dal pacchetto a “taglia unica” del Consenso di Washington, lo sviluppo economico deve essere “locale” in ogni caso. Il nostro amato Piccolo Timoniere Deng Xiaoping l'avrebbe chiamato “sviluppo con caratteristiche locali”.

Abbiamo dimostrato che gli Stati in via di sviluppo del Sud del mondo devono unirsi, e non per sostenere l'unilateralismo statunitense ma per organizzare un nuovo ordine mondiale basato sull'indipendenza economica e al contempo rispettoso delle differenze politiche e culturali. Abbiamo intrapreso la nostra yellow BRIC road e non ci siamo solo noi, Brasile, Russia, India e Cina; ci sono anche tutti gli altri Stati del Sud del mondo. Tuttavia siamo consapevoli che il ricco Nord tenterà sempre di cooptare certi paesi del Sud per ostacolare un cambiamento gerarchico in cui il mondo possa credere, e che è, come forse già sa, incarnato dalla Cina.

Avrà anche capito perché la Cina abbia costantemente battuto le istituzioni economiche e finanziarie controllate dal Nord. Dopo tutto, offriamo ai paesi del Sud del mondo contratti migliori per accedere alle loro risorse naturali. Ci siamo impegnati in vasti e complessi progetti di costruzione delle infrastrutture che finiscono sempre per costare meno della metà rispetto ai prezzi applicati dai paesi del Nord. I nostri prestiti sono finalizzati più attentamente; non sono soggetti a fraintendimenti politici; e non portano con sé tariffe esorbitanti per le consulenze.

Avrà capito che i principali paesi produttori di petrolio hanno dirottato le loro risorse in eccesso verso il Sud. Paesi ricchi di petrolio dell'Asia Occidentale hanno cominciato a investire pesantemente nell'Asia Orientale e Meridionale un po' del surplus che avrebbero normalmente destinato all'Europa e agli Stati Uniti.

Si sarà accorto, compagno, che la contro-rivoluzione monetarista è morta. Dunque la questione ora non è se l'Asia e il Sud del mondo continueranno a usare il dollaro statunitense come valuta di scambio – questo, ovviamente, continuerà per anni. La questione a lungo termine è se continueranno ad affidare i surplus delle loro partite correnti a istituzioni controllate dal Nord, o se lavoreranno piuttosto per l'emancipazione del Sud. I suoi istinti egalitari potranno simpatizzare con quest'ultima soluzione, ma siamo certi che la classe dirigente degli Stati Uniti la contrasterà con le unghie e con i denti.

Ci scusi per quella che può essere vista come impertinenza, compagno. Naturalmente – seguendo la lezione del grande maestro Lao Tzu – siamo anche consapevoli delle nostre mancanze. Sappiamo bene che per un quarto della nostra popolazione di 1,3 miliardi di persone sarebbe un suicidio adottare il sistema di produzione e consumo noto come stile di vita americano. Sappiamo che dobbiamo fare di più per proteggere l'ambiente. Il nostro Piano Quinquennale 2006-2010, per esempio, ha posto come obiettivo una riduzione del 20% del consumo di energia, e la nostra politica industriale ha chiuso quasi 400 sottosettori industriali e ne ha limitati altri 190. Sappiamo bene cosa si rischia se, entro il 2025, non meno di 300 milioni di contadini si trasferiranno nelle nostre città, dove le auto, comprese le vostre Buicks americane, già fanno apparire piccolo il numero di biciclette.

Capiamo anche quante distorsioni siano implicite nella nostra cieca riproduzione del modello di sviluppo occidentale. Per farle un esempio, quando i nostri visitatori vanno al mega-centro commerciale The Place, nel distretto finanziario centrale di Pechino, e guardano il più grande schermo sospeso del mondo – che trasmette immagini generate al computer – si lamentano dello spreco di energia che comporta. È una droga per la quale non abbiamo ancora trovato la cura. Non ne abbiamo mai abbastanza di centri commerciali, e di concessionarie di SUV, di Hummer e di Ferrari a Jinbao Dajie, la strada dello shopping.

Siamo ben consapevoli delle centinaia di scioperi e dei diffusi disordini sociali che si verificano ogni mese e che coinvolgono soprattutto la nuova classe lavoratrice cinese – i giovani migranti interni – che costituisce la spina dorsale della nostra invidiabile industria di esportazione. Negli Stati Uniti non ci crederete, ma naturalmente in Cina esiste un movimento dei lavoratori – non uno, ma molti, spontanei e relativamente poco articolati, estremamente attivi praticamente in tutte le città del paese.

Noi vi prestiamo attenzione, e facciamo il nostro meglio per occuparci delle loro vertenze. Il Presidente Mao metteva sempre in guardia contro il luan – il caos – e niente ci preoccupa più della rivolta sociale nelle aree urbane e rurali. Ecco perché abbiamo mutato la nostra politica, tentanto di correggere le ineguaglianze derivanti dallo sviluppo e varando nuove leggi che offrono maggiori diritti ai lavoratori.

Nello stesso tempo, ricordiamo sempre come le riforme del compagno Deng Xiaoping dovettero occuparsi innanzitutto e soprattutto del settore agricolo. Per questo oggi il Presidente Hu si concentra tanto sullo sviluppo dell'istruzione, della prevenzione sanitaria e dell'assistenza sociale nelle campagne. Ecco come vediamo lo sviluppo di una “società armoniosa”.

Riassumendo, compagno Maobama. Speriamo davvero che lei apprezzi la favolosa anatra alla pechinese in compagnia del compagno Hu Jintao, e che conduca con lui un franco scambio di vedute. E, a proposito, se ha bisogno di un corso accelerato sulla politica cinese, non perda tempo ad ascoltare i suoi think tank: spedisca un diplomatico in un negozio di DVD a comprare una copia (pirata) della Città proibita di Zhang Yimou, con Chow Yun-fat e la nostra splendida Gong Li. Sta tutto lì: il culto della segretezza e della dissimulazione; la logica e la crudeltà dei clan rivali; il senso di tragedia politica; e come, in Cina, la ragion di Stato abbia la meglio su tutto. Certo, in fin dei conti possiamo essere una società violenta, ma è una violenza interiorizzata. Il luan del Presidente Mao è la nostra più profonda paura; temiamo soprattutto il male che possiamo infliggere a noi stessi. Se riusciremo a controllare noi stessi potremo essere un vero Regno di Mezzo, tra cielo e Terra. “Potenza superglobale” è solo senno di poi.

Comunque, come disse il compagno Deng, diventare ricchi è meraviglioso – tanto più quando si diventa il banchiere dell'attuale superpotenza globale. Saremo sempre qui per lei quando ne avrà bisogno. La preghiamo solo di non chiederci di svalutare lo yuan. Possa essere benedetto e condurre una propizia e prospera amministrazione, e possiate lei e la sua famiglia vivere una lunga e fruttuosa vita.

Con deferenza,
La Repubblica Popolare Cinese

lunedì 16 novembre 2009

Hamas: “Non siamo dei malvagi, sono loro che ci hanno dipinti in questo modo!”


di Mary RIZZO, 19.10.2009. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala
Originale: HAMAS: They’re not bad, they’re just drawn that way


 
In molte parti dell’Occidente, certi partiti o movimenti politici vengono trattati come se venissero dalla Luna o fossero estranei ad ogni struttura politica. La loro esistenza fra la gente è sempre qualificata come negativa, transitoria, come un qualcosa creato in una sala-mensa o in un retrobottega, proposto ad un pubblico ingenuo, incapace di distinguere un vero programma politico da un discorso vacuo e semplicistico.
Questi partiti o movimenti sono dipinti come se si rivolgessero solo ai marginali della società, che non hanno diritto di cittadinanza in qualsiasi struttura democratica “normale”, e quindi sono gruppi sgangherati che rappresentano una minoranza del corpo elettorale. Data la loro natura avversa ai partiti pre-esistenti, viene imposta loro un’etichetta che servirà a tenerli isolati dalle strutture già operative. Tutto questo serve per distruggere il partito o il movimento mediante un lavoro di propaganda, piuttosto che analizzare la realtà.
Intorno al movimento di resistenza palestinese di Hamas (che si è trasformato in un partito) è  stata costruita una intera mitologia. Questo costrutto ha effettivamente assunto, come autentica interpretazione di Hamas, più legittimità che i fatti stessi.
Nella maggioranza dei media occidentali, non importa se di destra o di sinistra, e in alcuni dei media “moderati” nei paesi arabi, il nome di questo partito è accompagnato da termini come “fondamentalista”, “radicale” o “terrorista”.
È evidente che questo serve a creare un “innesco della paura”, che impedirà all’informazione di essere valutata in modo critico ed onesto. Il lettore o l’ascoltatore identificherà immediatamente Hamas con una connotazione negativa e così viene estraniato dalla responsabilità di comprendere che questa è una manipolazione della realtà. Ci si aspetta che l’utente accetti le affermazioni che Hamas è “anti-democratico” e “fanatico”. Allora, diventa un gioco da ragazzi convincerlo che Hamas è il Male, che rappresenta il Nemico di tutto ciò che Noi rappresentiamo (a parer nostro, la tolleranza, la democrazia, il Bene stesso).
È possibile allora estendere questa lettura alla conclusione, che contro Hamas deve essere promossa una qualche azione, visto che costituisce un “cancro che deve essere estirpato”, come si è espressa la pacifista istituzionale Noah.
Come viene sradicato un cancro, dopo che è stato diagnosticato? Per estirpazione o bombardamento. Nel corso del trattamento di un tumore, vengono “bombardate” con agenti tossici discrete parti sane del corpo, in attesa di vedere se dopo la battaglia vi sono sufficienti parti sane restanti per permettere all’organismo di continuare ad esistere.
Una volta che si è inculcato nella mente di milioni di persone l’idea che la distruzione è un bene, dato che il nemico è tanto nocivo e malvagio se gli viene concesso di esistere, il rischio di condurre alla tomba l’intero organismo per drammatica debilitazione viene assunto come un rischio accettabile da correre. Questo è un modo per giustificare ai loro occhi azioni che non possono essere viste come terapeutiche, ma sono invece orrore puro e malvagità. 
Come si è ottenuto che il mondo sia stato così ingannato da permettere ad Israele di distruggere Gaza  per “sbarazzarsi di Hamas”? È stato abbastanza semplice e la risposta è sempre la stessa: Israele e i suoi alleati mantengono le persone nella disinformazione.
Coloro che realmente andranno a frugare solo un poco sotto i titoli di testa sguaiati dei giornali potranno scoprire alcuni fatti ben nascosti che contraddiranno quello che viene messo in giro, ma non saranno tante persone ad andare così lontano, dato che la gente è esposta a informazioni con elementi di verità profondamente sepolti al loro interno.
Non fosse questo sufficientemente problematico, anche i “progressisti” hanno reso meritori servizi per presentare Hamas come un paria intoccabile. Potrebbero accettare Hamas come un “movimento di resistenza”, ma non consentiranno per il loro personale pregiudizio ideologico di considerare Hamas come una forza progressista per l’avanzamento del suo stesso popolo. 
Questo può avvenire per convinzione, convenienza, perfino assenza di indagine o un punto di vista cieco che non permette variazioni sul tema della lotta di classe, dove tutto è “internazionale” e lo stesso tipo di regole ed ideali dovrebbero essere considerati applicabili e necessari per tutti, a tal punto in qualche caso da arrivare ad “importare la democrazia” sotto forme più o meno aggressive.    Queste persone, molte delle quali sono armate di buone intenzioni, hanno masticato, ingoiato e risputato non poche delle palesi menzogne e distorsioni che fanno parte della mitologia creata dagli oppositori di Hamas, soprattutto in Israele e in Occidente.
Quali sono i componenti di questa mitologia?
1) Hamas è stato creato dal Mossad israeliano.
2) Hamas rappresenta una parte marginale dei palestinesi.
3) Hamas è diventato sufficientemente democratico solo per ottenere una qualche legittimazione per assumere il controllo dei Territori Palestinesi e trasformarli poi in uno Stato Islamico. 
4) La vittoria di Hamas nelle elezioni non è stato altro che un voto di protesta contro la corruzione di Fatah.
5) Hamas è costituito da un branco di illetterati e i suoi elettori vengono imbrogliati per pura ignoranza.
6) Hamas è un gruppo fondamentalista e quindi privo di flessibilità ed incapace di una qualche modificazione o evoluzione. Spesso, contro Hamas, viene citata la sua Carta Costitutiva per mettere in rilievo come Hamas costituisca semplicemente un gruppo radicale, che mira alla distruzione, pronto alla Guerra Santa.
7) Hamas non cerca alcuna forma di compromesso con gli altri partiti o fazioni Palestinesi, e quindi rappresenta l’elemento di divisione che impedisce l’unità del popolo. 
8 ) Hamas opera per indottrinare la sua gente con una propaganda di odio, in modo da utilizzarla poi come carne da cannone.
9) Hamas è un gruppo terrorista che esiste solo grazie ai finanziamenti che riceve da parte dei “regimi fondamentalisti”.
Che Hamas sia un puro e semplice movimento di resistenza è stato assolutamente confutato dalle elezioni, ma si continua a considerarlo come il rifugio dove attivisti possono riunirsi, cercando di convincere se stessi di essere in grado di tollerare Hamas, mentre sono desiderosi di un suo rapido crollo.
Allora, Hamas non viene considerato possedere un vero patrimonio di idee come partito politico, comparabile ai partiti delle “nazioni democratiche” della “comunità internazionale”, e quindi le analisi a suo riguardo si fermano a livelli elementari, rendendolo soggetto delle più affrettate generalizzazioni.
Io chiedo ai miei lettori di benevolmente perdonare l’uso delle virgolette, ma queste rendono le parole ironiche e dense di autentico significato, quando vengono applicate agli argomenti indicati dagli esperti in pubbliche relazioni, che hanno il compito di eseguire gli ordini dei poteri egemonici.    Come è possibile che una minoranza di una manciata di nazioni, che sempre si oppone alla volontà del resto della comunità mondiale all’ONU, possa essere considerata come la “comunità internazionale”? Questo è solo un “club molto esclusivo”, che esclude praticamente tutti gli altri. Come è possibile che un paese che fa assumere il potere al candidato che ottiene il minor numero di voti possa essere definito “democrazia”?   
Solo quando cominciamo a porci domande sulle nostre stesse basi concettuali, allora noi possiamo discernere che esiste molta convenienza nel presentare qualsiasi oppositore come nemico ed estraneo ai paradigmi che noi consideriamo centro delle nostre aspettative, di come instaurare un mondo giusto e conforme alle regole di equità.

È giunto il momento di smontare alcuni di questi miti con dati di fatto. 
1) Hamas non è stato creato dal Mossad.
Quantunque Israele ami attribuirsi il merito di molte cose, in questo caso questo non succede. L’Islam politico in Palestina è sempre stato presente, fin dai primi anni Quaranta del secolo scorso, durante il Mandato Britannico sulla Palestina, e Hamas era nato facente parte dei Fratelli Musulmani (Ikhwan), con molti dei suoi primi dirigenti ufficialmente affiliati.
È stata l’esperienza come rifugiati che ha convertito Hamas in una organizzazione più autonoma con una particolare base nazionalista, il naturale risultato dell’insostenibile situazione umanitaria dello sradicamento come profughi e della perdita dell’identità culturale e nazionale. 
Vi sono state relazioni strette di questo gruppo con il gruppo di base in Egitto, e i primi uffici dell’ Ikhwan in Palestina si insediarono a Gaza nel 1945, sotto la direzione di un membro di una delle più importanti famiglie della zona, lo Sceicco Zafer al Shawwa.
Durante la prima guerra Arabo-Israeliana, le truppe Arabe furono rinforzate da volontari Islamisti, provenienti principalmente dalla Giordania e dalla Siria, e questo appoggio dimostrò ai rifugiati in esilio che Ikhwan, i Fratelli Musulmani, avevano il coraggio di difendere se stessi, anche durante la “Guerra Israeliana di Indipendenza”.
Il crescente numero di rifugiati procurò una più forte identità e determinazione al movimento Islamista in Palestina.
Perciò, nella società  civile, e nella popolazione Palestinese in generale, non erano necessarie motivazioni provenienti da altre fonti per aderire all’impegno: “Prometto di essere un buon Musulmano in difesa dell’Islam e della terra persa di Palestina. Prometto di dare buon esempio alla comunità e a tutti gli altri.” Queste erano le parole pronunciate da coloro che giuravano lealtà alla Ikhwan in Palestina (fonte: Beverly Milton Edwards, “Islamic Politics in Palestine”, p. 43).
La Ikhwan locale aveva un suo programma, la difesa della terra perduta. Questo non richiedeva fanatismo, influenze dall’esterno e nemmeno propaganda. I profughi stessi erano la prova vivente degli orrori della deportazione e della sofferenza. L’identificazione come parte di un movimento internazionale fu concomitante con il riconoscimento della particolarità dell’esperienza palestinese. La fondazione ufficiale di Hamas, databile al 9 dicembre 1987, era solo la fase culminante di un’organizzazione che operava da decenni. 
La resistenza Islamica organizzata venne ancora utilizzata quando la situazione precipitò drammaticamente nel 1967 e nasceva una nuova generazione di rifugiati. Per questa generazione, un ritorno all’Islam veniva considerato come una necessità per il futuro morale e politico di un popolo che stava venendo letteralmente distrutto.
La causa della Nakba è stata vista da molti come il risultato del distanziamento da una società normale, quella palestinese, in cui i valori etici, religiosi, culturali e tradizionali erano stati devastati dall’occupazione, e la discesa ancor più nella degradazione, nella povertà, nel disaffrancamento e nella instabilità sociale era considerata non solo come risultato dell’occupazione, ma anche causa dell’occupazione.
La “comunità internazionale” non manifestava l’intenzione di giungere alla liberazione di questo popolo, il resto della Ummah [N.d.T.: Comunità dei fedeli] non si faceva coinvolgere nella sua lotta nazionale, soprattutto perché non direttamente interessata o perché riceveva proibizioni a farsi coinvolgere.
In quel momento, il dolore estremo e la disgrazia per la perdita di quella terra erano un elemento nuovo in quella regione, dove la precedente colonizzazione aveva evitato l’espulsione degli abitanti autoctoni, e l’espulsione degli usurpatori non veniva complicata con la perdita totale di radici e di basi.
Quindi, le fondamenta della dimensione formale di Hamas erano presenti da decenni prima della sua nascita ufficiale. 
Allo scopo di essere operativi, pur sotto un’occupazione oppressiva, questi gruppi organizzati esistenti hanno messo in piedi per il loro popolo organizzazioni benefiche e caritatevoli. Queste istituzioni sono state tollerate da Israele nei Territori Occupati. Israele permetteva alcuni spazi operativi mediante concessione di autorizzazioni.
Come affermava il Generale Yitzhak Sager in un’intervista all’International Herald Tribune nel 1981, il governo di Israele “…consegnava denaro che il governatore militare destinava alle moschee […] le somme venivano destinate sia alle moschee che alle scuole religiose, allo scopo di rinforzare una causa che avrebbe contrastato quella della Sinistra, che era favorevole all’OLP.” 
Se vi era qualche motivo per cui Israele si impegnava, questo senza dubbio era del tipo “divide et impera”, un pizzico di tolleranza, un pizzico di sostegno economico alle varie associazioni religiose in modo da vedere se risultasse possibile lo sviluppo di un’opposizione ai nazionalisti dell’OLP.
In effetti questa era la solo maniera per cercare di indebolire l’OLP, che stava conseguendo appoggi in Occidente; comunque gli Israeliani non finanziarono, non fornirono rilevanti contributi o in alcun modo influenzarono un movimento, che avrebbero potuto in qualsiasi modo infiltrare e controllare.
Questa è pura mitologia. Perché dare credito ad Israele, quando non gli è proprio dovuto?
2) Hamas rappresenta solo una parte marginale dei palestinesi: questo è un altro mito da smontare.
Senza dubbio, è certo che non tutti i palestinesi sono rifugiati, e anche è vero che di fatto tutti i dirigenti di Hamas sono nati in esilio o in qualche momento hanno dovuto subire l’esperienza dell’espulsione e la perdita delle loro case e dei loro averi. Questa è un’esperienza corale dei palestinesi, ed è certo che anche coloro (pochi) che non sono stati sradicati si identificano con la perdita della loro identità culturale e nazionale, e tutti insieme sanno che le loro aspirazioni nazionali e la coesione come collettivo sono state distrutte da Israele.
Allora, anche un movimento o partito che poggia la propria identità sui campi profughi e in esilio o sulle radici religiose, è riconosciuto come un intrinseco, legittimo e naturale rappresentante dai palestinesi tutti. Hamas ha ottenuto la maggioranza dei voti perfino nelle zone della West Bank di Cisgiordania, mai considerate roccaforti di Hamas, ed è stato votato anche in molte zone cristiane.
3) Il mito che Hamas abbia virato “in modo sufficientemente democratico” solo per mettere i piedi sulla porta d’ingresso come primo passo per imporre con la forza uno Stato Islamico sull’intera Palestina è abbastanza diffuso, specialmente nei circoli progressisti che non riconoscono il carattere popolare del movimento, o che hanno un pregiudizio ideologico contro qualsiasi movimento religioso. 
Molto si può dire in favore della separazione fra chiesa e stato, ma naturalmente questo è qualcosa che non può essere imposto da lontano, e in più, esistono diversi livelli di separazione da prendere in considerazione.
Coloro che sottoscrivono l’assunto che “Hamas sta guadagnando tempo prima di introdurre la Sharia” tendono a negare che la democrazia ha determinate caratteristiche, e non necessariamente è sinonimo di “secolarismo”. Quando il concetto “democrazia” viene applicato correttamente, tutto questo ha determinate caratteristiche, alle quali Hamas corrisponde.
Hamas ha il consenso popolare. Possiede una struttura interna che è autonoma e riconosciuta come legittima dal suo elettorato. Segue le norme elettorali, rispondendo alle esigenze normative per la partecipazione. Una volta eletto, assume il suo ruolo nell’ambito del sistema esistente, senza mettere in atto rovesciamenti di sistema o colpi di stato contro le strutture di governo.
Hamas è un movimento politico con diverse correnti al suo interno (alcune di queste armate, comunque questo vale per molte parti politiche nelle zone sotto occupazione, Fatah inclusa), con una storia ed una organizzazione. 
All’interno del suo elettorato, inclusi quelli che sono prigionieri politici, si svolge un ampio dibattito prima di assumere decisioni, e la maggioranza decide le azioni da intraprendere. Se esiste una qualche differenza fra Hamas e i partiti familiari agli Occidentali, questa risiede nel fatto che i dirigenti di Hamas a più alto livello generalmente non assumono mai funzioni di governo. Questo è comprensibile per un partito in cui un grande numero di dirigenti sono sistematicamente assassinati da Israele.
Che l’attuale direttore della linea politica di Hamas, Khaled Meshaal, sia costretto a vivere in esilio dopo essere stato vittima di un tentato omicidio la dice lunga rispetto a questa situazione anomala, più di mille parole.
flags suhaib salem

4) Che la vittoria di Hamas nelle elezioni per il Consiglio Legislativo sia stato nulla più che un voto di protesta (un’altra teoria coccolata dalla sinistra) è stato brillantemente illustrato come falso da Paola Caridi nel suo libro veramente valido (malgrado il sottotitolo a sensazione) “Hamas, quello che è, e quello che vuole il Movimento Radicale Palestinese”, pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli, e per il momento disponibile solo in Italia.
Io sto traducendo qualche paragrafo che tratta di questo argomento:
“Esiste una precisa ragione politica per cui la maggioranza dei palestinesi ha votato per Hamas. È una ragione che si rapporta alla decisione presa ufficialmente dal movimento Islamista il 23 gennaio 2005 (nota della traduttrice: un anno prima delle elezioni Legislative): una tregua unilaterale, concordata assieme alla Jihad Islamica (che in diverse occasioni non l’ha rispettata), che aveva mutato le parole in fatti; che avrebbe avuto termine la stagione degli attacchi terroristici condotti da Hamas all’interno di Israele, delimitato dai confini individuati dall’armistizio del 1949, in altre parole Israele all’interno della Linea Verde.
La fine degli attacchi suicidi contro le città israeliane, in buona sostanza ponendo termine all’Intifada secondo l’opzione partecipativa (di Hamas), è stata interpretata dalla popolazione palestinese come una precisa proposta politica: un’alternativa a coloro che avevano esercitato il governo e il controllo fino a quel momento, imponendo la loro egemonia. Una proposta che poneva allo stesso tempo de facto nuovi limiti alla strategia resistenziale di Hamas.
Quindi, il movimento Islamista non è stato scelto solo per protesta contro la corruzione, il clientelismo e l’inefficienza di Fatah, un partito spesso confuso con l’Autorità Palestinese (AP). Corruzione, clientelismo ed inefficienza sono stati messi in relazione, almeno da un punto di vista temporale, con il fallimento degli Accordi di Oslo e i “fatti concreti sul campo” realizzati dagli Israeliani.
La gente di Hamas è stata considerata gente seria, che non ha arricchito se stessa a spese della popolazione, e di fatto ha continuato a vivere in quartieri normali e nei campi profughi.” (Caridi, p. 171).
5) Una diffamazione estremamente offensiva, spesso ripetuta, divulga che i sostenitori di Hamas e i suoi dirigenti sono un “branco di illetterati” o di “fanatici religiosi”. 
Quasi tutti i dirigenti di Hamas sono (o erano, dato il numero di ammazzamenti all’interno dei loro ranghi, il tempo passato è di rigore) in possesso di titoli universitari in settori che spaziano dalle scienze mediche alla giurisprudenza, dalle scienze economiche alla teologia; questo testimonia come questa campagna di diffamazione consista semplicemente nel gettare fango su di loro e nel raffigurali come lettori di soli testi religiosi, e quindi “sottosviluppati” se raffrontati ad altri movimenti. L’istruzione è sempre stata uno dei pilastri di Hamas e del suo operare caritatevole. Il popolo palestinese non ha bisogno di essere informato su questo, per esso questo è un dato di fatto, mentre in molti casi, senza questa istituzione, in questa zona i palestinesi sarebbero abbandonati all’indigenza. 
6) La mancanza di flessibilità di Hamas è un altro mito, specialmente tirato in ballo quando si parla della sua Carta Costitutiva del 1988 (Mithaq).
Lo Sceicco Hamed Bitauri, “autorità religiosa di Nablus, Presidente dell’Unione degli Ulemas palestinesi, noto per le sue posizioni radicali, non ha avuto problemi nel ribadire che ‘la Carta non è il Corano. È sempre possibile cambiarla. È solo la sintesi delle posizioni del movimento Islamista in rapporto con le altre correnti, e della sua politica.’
Aziz Dweik, fondatore del Dipartimento di Geografia dell’Università di Nablus, in seguito divenuto portavoce del Parlamento palestinese dopo le elezioni del 2006, ed imprigionato nelle carceri di Israele dall’estate di quell’anno, andò perfino oltre, dichiarando a Khalid Amayreh, giornalista palestinese sensibile alle posizione Islamiste, la necessità politica e pragmatica di prendere le distanze dalla Mithaq del 1988, asserendo inoltre che ‘Hamas non dovrebbe rimanere ostaggio di retorici slogans del passato come quello della ‘distruzione di Israele’” (Khalid Amayreh, Hamas Debates the Future: Palestine’s Islamic Resistance Movement Attempts to Reconcile Ideological Purity and Political Realism – Hamas discute sul futuro: il movimento di resistenza Islamico Palestinese cerca di conciliare la purezza ideologica con il realismo politico, in “Conflicts Forum”, Nov. 2007, p.4) (Caridi p. 90).
Haniyeh si è espresso in molte occasioni asserendo che la Carta è stata superata sostanzialmente da altri documenti ufficiali, il più importante dei quali, il Programma Elettorale della Riforma e la Lista dei Cambiamenti (la lista che Hamas ha presentato per la sua candidatura), è strutturato come un documento che va ben oltre alle necessità di una contingente campagna politica, come dichiarato dal leader di Hamas, ed indica a chiare lettere la politica del movimento.
Questa non era stata mai documentata per scritto nel fervore rivoluzionario dell’Intifada, e tutto ciò riflette l’evoluzione del partito. Le variazioni presenti non sono tanto ideologiche, quanto di natura strategica e politica. Queste posizioni sono state reiterate così tante volte in interviste e in interventi pubblici che sembra incredibile che il quadro complessivo e la maturità di Hamas non debbano oramai essere evidenti a tutti.
Chiaramente, i dirigenti di Hamas sono votati alla liberazione della Palestina, ma stanno tentando di acquisirla attraverso la riaffermazione dei diritti del popolo, rendendosi ben conto che come partito Hamas non ha la dotazione necessaria per rovesciare realisticamente l’occupazione, o di distruggere quello che riconosce come una realtà.  
Molti di noi che hanno seguito gli eventi in Medio Oriente confidano che gli uomini di Hamas non si abbandonino al pragmatismo così tanto da riconoscere Israele non solo come realtà, ma come uno “Stato Ebraico”; comunque noi dobbiamo stare a vedere e valutare i fatti. 
Sarà il popolo di Palestina a vigilare su quali diritti è costretto a rinunciare, se succederà, e molti di noi pensano che, messi con le spalle al muro, quelli di Hamas non capitoleranno, e non perderanno quello che sanno essere loro, per ragioni di opportunismo politico.
Hamas è ben consapevole di questo fatto.      
7) Hamas ha presentato al suo interno molte meno divisioni che il suo principale oppositore politico, Fatah.
Il “golpe” di Gaza, che tanto ha sconvolto e rattristato il mondo, è stato in effetti una misura preventiva per frustrare la presa del potere progettata dalle forze di Fatah fedeli a Dahlan (in collaborazione con Israele).
Che Hamas sia stato il partito che ha conseguito la vittoria per mandato del suo popolo, questo non è stato mai riconosciuto dalla “comunità internazionale”, nonostante fossero state esercitate pressioni per elezioni e si insistesse che ciò era indispensabile per i palestinesi, in quanto avrebbe significato che la resistenza aveva conseguito legittimazione e contenuti politici all’interno di una struttura di governo; il rifiuto di negoziati in posizione subalterna ad Israele, che era la politica di Fatah, è stato ufficialmente sanzionato dalla popolazione, e sarebbe stata solo questione di tempo prima che il programma di subalternità si trasformasse in politica. Allora, ciò che avrebbe costituito il vero “golpe” sarebbero state le mosse delle “Forze di Sicurezza” di Fatah per impadronirsi di Gaza!
E retrospettivamente considerando gli avvenimenti, conditi da tanta disinformazione, il tragico bagno di sangue fra palestinesi ha impedito realmente la distruzione della democrazia che sarebbe avvenuta se a Dahlan ne fosse stata data l’opportunità.
Hamas ha cercato di collaborare, ancora e ancora, con il partito di opposizione, e questo costituiva un qualcosa che non veniva tollerato dai leader di questo partito, nella vana speranza che il loro vantaggio economico e il nulla osta politico ricevuto dai “membri del club esclusivo” avrebbero permesso loro di esercitare il potere, anche in assenza del mandato popolare a farlo.
8 ) Non è necessario far uso di propaganda per dimostrare ai Palestinesi dei Territori Occupati o in esilio, e anche ai molti all’interno di Israele, la distruzione in atto della civiltà e del popolo palestinese.
Embarghi, bombardamenti, assassini, guerra, umiliazioni ai checkpoint, restrizioni, separazioni di famiglie, imprigionamenti ed abusi ulteriori non sono incidenti isolati, ma costituiscono il pane e l’acqua quotidiani dell’esistenza dei palestinesi.
Nessuno sente la necessità  di inventarsi una collera furibonda contro un nemico fantasmatico. Ma esiste un nemico reale, che sta facendo subire alla gente di tutte le età e condizioni umiliazioni, deprivazioni e morte.
Rappresentare un uomo in costume da ratto, per insistere che i bambini sono indottrinati nell’odio, può essere ben accolto dalle masse disinformate, ma uno squarcio fugace sulla realtà rende l’aspetto di Farfur [N.d.T.: il “Topolino” palestinese] la più dolce maniera per un bambino di assimilare e tollerare come lui, o lei, sia un prigioniero destinato per la vita a soffrire nel modo più atroce, per essere nato creatura inferiore agli occhi degli oppressori.   
9) La peggior calunnia nei confronti del gruppo di Hamas è di mantenerlo come simbolo del male, come un gruppo terroristico, finanziato dagli “Stati canaglia dell’asse del male”.  Tenendo ben presente che i loro finanziamenti sono abissalmente inferiori al gigantesco pacchetto di “aiuti militari” ed economici fornito ad Israele dall’America, Canada e da tante altre nazioni della “comunità internazionale” per vie ufficiali, perché la richiesta di finanziamenti dall’estero dovrebbe essere considerata come inaccettabile, quando questa semplicemente è la maniera per cui Israele si tiene a galla tramite miliardi di dollari all’anno, pagati puntualmente, e sa solo il Cielo che arrivano altri finanziamenti tramite le migliaia di “istituzioni benefiche”, che in realtà sono poco più che facciate dell’immigrazione di massa verso Israele, per limitare la crescita demografica araba? 
Se il Sionismo e le sue istituzioni benefiche vengono considerati legittimi e nobili, perché invece quelle islamiche vengono messe sulle liste nere e i donatori trattati come se stessero finanziando il terrorismo? Qui, vi è un duplice standard di trattamento!
Che Hamas abbia rigettato le operazioni terroristiche contro i civili e abbia fatto del suo meglio perché ciò avvenga, in funzione dell’acquisizione di un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita del suo popolo, è un fatto comprovato, avvalorato niente meno che dal USA Congressional Research Service (Servizio Ricerche del Congresso USA), un Centro Studi che fondamentalmente presenta le sue analisi conservatrici e filo-israeliane al Congresso, perché vengano convertite in politica.
Infatti, nel documento coordinato da Jim Zanotti, a http://www.fas.org/sgp/crs/mideast/R40101.pdf , Israel and Hamas, Conflict in Gaza (2008-2009), noi vediamo che la “ragione” addotta per l’aggressione a Gaza per “depurarla da Hamas”, i razzi sparati contro il territorio di Israele, non era null’altro che una scusa che l’Occidente si era bevuta “con gusto”, come fosse succo di ciliegia. 
Si ammetteva che i razzi, estremamente rudimentali, NON erano stati lanciati da Hamas, e non solo questo, Hamas veniva valutata aver avuto l’intenzione ed essere stata in grado di sopprimere gli attacchi.   
È significativo che le prime vittime degli attacchi di Israele a Gaza sono state le forze regolari di polizia, addestrate, forse, anche a questo scopo. 
Zanotti scrive:
“Durante i primi cinque mesi, il cessate-il-fuoco teneva relativamente bene. Pochi razzi venivano sparati contro Israele, ma molti venivano attribuiti a gruppi di militanti non appartenenti ad Hamas, e, progressivamente, Hamas appariva sempre più in grado e intenzionato a sopprimere anche questi attacchi. Non si registravano morti di israeliani (anche se vi erano feriti e danni alle proprietà), ed Israele si tratteneva dalle rappresaglie.
Tuttavia, entrambe le parti in campo ritenevano che fosse l’altra a violare i termini del cessate-il-fuoco non scritto. Hamas esigeva – inutilmente – che Israele sollevasse il suo embargo economico contro Gaza, mentre Israele domandava – parimenti senza esito – la completa cessazione del lancio dei razzi e un avanzamento nelle trattative per il rilascio del caporale Israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas.
Israele adduceva lo sporadico lancio di razzi come giustificazione per tenere chiusi i valichi di frontiera e il porto marittimo di Gaza quasi a tutto, fatta eccezione alle forniture umanitarie essenziali.
Hamas, altri leader arabi ed alcune organizzazioni internazionali e non-governative impegnate nel portare aiuti ai civili di Gaza protestavano perché Israele non stava rispettando le sue promesse secondo l’accordo non scritto di tregua.”
Non bastasse questo, l’autore, che certamente non presenta alcuna simpatia per Hamas, fa considerazioni sulle conseguenze della guerra, quando anche Israele ammette che Hamas non era responsabile per il lancio dei razzi:
“Dal cessate-il-fuoco unilaterale da parte di Israele iniziato il 18 gennaio 2009, vi sono stati sporadicamente circa 40 lanci di razzi contro la parte meridionale di Israele, in numero ben minore di quello che capitava di media ogni giorno prima dell’Operazione Piombo Fuso.
Per giunta, ufficiali israeliani ritenevano che gruppi militanti minori, come la Jihad Islamica palestinese e le Brigate dei Martiri di Al Aqsa, e non Hamas, fossero i responsabili dei lanci dei razzi durante il cessate-il-fuoco, (sebbene sia possibile che Hamas permettesse o accettasse questi attacchi, mentre teneva un atteggiamento negativo in merito).”
Allora, Israele ha usato la scusa dei lanci di razzi imputabili ad Hamas per giustificare l’eliminazione di Hamas (tramite la distruzione globale di Gaza!) attraverso quelle che sono state definite “operazioni militari”, ma che il resto dell’umanità riconosce come una guerra, mentre gli israeliani erano ben consapevoli che Hamas non era né il responsabile né il facilitatore del lancio dei razzi; ogni tipo di scusa da loro estratta dal cappello magico per giustificare le loro azioni dovrebbe trovarci completamente sordi.
Le lamentele sul contrabbando di armi attraverso tunnel del tutto rudimentali dovrebbero puzzare terribilmente, quando andiamo a vedere gli Stanziamenti di Bilancio della Difesa per i Programmi di Difesa Missilistica USA-Israele in quello stesso Rapporto indirizzato al Congresso. Vengono descritti in modo sommario l’Iron Dome, il David’s Sling ed altri “aiuti militari”, che costano al popolo americano miliardi di dollari.
Per ogni cinque inefficienti missili fatti in casa e contrabbandati attraverso un tunnel, gli USA trasportano in volo a pieno carico armi e casse di denaro contante da spendere da parte di Israele per le sue “necessità” militari. Per di più, ecco che i due pesi e le due misure sono la causa dello spargimento di sangue innocente in violazione del diritto internazionale, a spese del vostro denaro di contribuenti da voi guadagnato con sacrifici.
Ancora, dal rapporto indirizzato al Congresso:
“Nelle sue operazioni contro Gaza, Israele può avere usato programmi, armamenti e munizionamento acquisiti dagli Stati Uniti, inclusi, da quanto viene riferito, aerei da combattimento F-15 e F-16, elicotteri Apache e, sempre secondo articoli di stampa israeliani, bombe teleguidate di piccolo calibro GBU-39, di cui il 110.esimo Congresso ha approvato la vendita in seguito alla notifica del settembre 2008. “
In aggiunta, tutte le tregue unilaterali fra Israele ed Hamas (annunciate da Hamas, mai da Israele) sono state rotte ogni volta da Israele. In molti casi, compiendo incursioni all’interno dei Territori Occupati, incursioni proibite dal diritto, che prevede che le popolazioni civili sotto occupazione (anche se i “coloni” se ne sono andati, Gaza è tenuta sotto assedio da Israele)  devono essere rispettate, non aggredite dall’occupante.
Israele, usando armi e velivoli forniti per le buone grazie del popolo degli Stati Uniti, ha bombardato strade e posti pubblici dove i loro obiettivi (uomini politici e religiosi che Israele individua come “militanti”, se non peggio) venivano localizzati, uccidendo in modo indiscriminato tutti coloro che stavano nei pressi, bambini compresi. Se questo non è terrorismo, questo termine non significa più nulla! 
Questi sono solo alcuni dei miti in circolazione. Rappresentano solo una parte delle menzogne, della disinformazione e della propaganda (hasbara) messe in circolo nei confronti di uno dei più importanti partiti palestinesi, sostenuto dall’interno, che si evolve come tutti i partiti, dal basso e legittimato da elezioni oneste e legali.
Smontare queste menzogne è  un dovere. Non è necessario essere d’accordo con l’intero programma di Hamas, ma si è obbligati a riconoscere che Hamas è totalmente differente dall’immagine che gli è stata cucita addosso a forza.
Quello che si domandava Jessica Rabbit nel film, “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” potrebbe molto bene essere applicato ad Hamas: “Noi non siamo dei malvagi, sono loro che ci hanno dipinti in questo modo!” 


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sabato 14 novembre 2009

1989-2009: Il Muro di Berlino si sposta sui confini della Russia

di Rick Rozoff, STOP NATO, 7/11/2009. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala

Originale: 1989-2009: Moving the Berlin Wall to Russia's Borders

Stop NATO – 7 novembre 2009
Il 9 novembre segnerà il ventesimo anniversario della decisione da parte del governo della Repubblica Democratica di Germania di aprire valichi di passaggio nel muro che separava i settori orientali ed occidentali di Berlino.
Dal 1961 al 1989 il muro aveva costituito una linea di divisione nella –, un simbolo di –, e un metonimo per –, Guerra Fredda.
Una generazione successiva a questi eventi si incontrerà a Berlino per commemorare la “caduta del Muro di Berlino”, l’ultima vittoria che l’Occidente può rivendicare negli ultimi due decenni.
Impantanati nella guerra in Afghanistan, nell’occupazione dell’Iraq e nella peggior crisi finanziaria dal tempo della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso, gli Stati Uniti, la Germania e l’Occidente nel suo complesso sono ansiosi di gettare un tenero sguardo all’indietro verso quello che è apparso come il loro più grande trionfo, il collasso del blocco socialista nell’Est Europeo seguito a ruota stretta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. 
Tutti gli attori di questo dramma – Ronald Reagan, Mikhail Gorbachev, George H. W. Bush (N.d.T.: Bush padre!), Vaclav Havel, Lech Walesa – e gli eventi che hanno condotto a questo, saranno con riverenza elogiati e considerati degni di celebrità. 
Gorbachev assisterà (forse con qualche imbarazzo?) alla festa di anniversario alla Porta di  Brandenburgo e le pagine di editoriali di tutto il mondo, dense di deferenza, ripeteranno la litania di banalità, di cose pietose, di elogi auto-gratificanti e di grandiose rivendicazioni, come ci si deve aspettare per l’occasione.
Quelli che non verranno riportati sono i commenti come quello pronunciato il 6 novembre da Mikhail Margelov, Presidente della Commissione per gli Affari Esteri della Camera Alta del Parlamento russo, il Consiglio della Federazione. Vale a dire, che “il Muro di Berlino è stato sostituito da un cordone sanitario di nazioni ex-sovietiche, dal Mar Baltico al Mar nero.” [1]
Con l’unificazione, prima di Berlino e poi dell’intera Germania, l’Unione Sovietica e il suo Presidente Mikhail Gorbachev avevano ricevuto assicurazioni che l’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (NATO) non si sarebbe allargata verso est, verso i confini dell’URSS. 
Gorbachev ribadisce che nel 1990 l’allora Segretario di Stato James Baker gli aveva dichiarato: “Guarda, se tu ritiri le tue truppe e consenti l’ingresso della Germania nella NATO, la NATO non si espanderà di un pollice verso est.” [2]
Non solo l’ex Germania Est veniva assorbita dalla NATO, ma negli ultimi dieci anni anche altri alleati del Patto di Varsavia entravano come membri di diritto del blocco NATO - Bulgaria, la Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania e Slovacchia.
La Russia è stata attaccata dall’Occidente per due volte, dai più imponenti eserciti di invasione mai assemblati nel continente Europeo e a un tempo nel mondo (nonostante le valutazioni iperboliche di Erodoto relative all’armata di Serse), quello di  Napoleone Bonaparte nel 1812 e di Adolf Hitler nel 1941. Il primo esercito consisteva di 700.000 uomini e il secondo di 5 milioni.
Le preoccupazioni di Mosca per l’accerchiamento invasivo militare a cui è sottoposta e il suo desiderio di assicurarsi almeno delle zone neutre tampone attorno ai suoi confini occidentali sono invariabilmente dipinte negli Stati Uniti e nelle capitali occidentali alleate degli USA come una qualche combinazione di paranoia Russa e di trama per far rivivere l’“Impero sovietico”.
Quello che i luminari auto-incensanti di geopolitiche occidentali pensano sul concetto di neutralità verrà considerato più avanti.

Con l’espansione del blocco militare, dominato dagli USA, nell’Europa Orientale nel 1999 e nel 2004, in quest’ultimo caso non solo i restanti stati non-Sovietici dell’ex Patto di Varsavia ma tre delle repubbliche ex-Sovietiche sono divenute membri effettivi della NATO, attualmente esistono cinque nazioni NATO che confinano con la Russia. Tre direttamente adiacenti alla sua terraferma – Estonia, Lettonia e Norvegia – e due più contigue all’exclave di Kaliningrad, la Lituania e la Polonia.
La Finlandia, la Georgia, l’Ucraina e l’Azerbaijan si stanno preparando a seguirne l’esempio e così si completerà l’accerchiamento dal Golfo di Barents al Baltico, dal Mar Nero al Mar Caspio.
La lunghezza del Muro di Berlino che separava la Berlino Ovest dalla Repubblica Democratica Tedesca era di 96 miglia. Il cordone militare NATO dalla Norvegia nord-orientale all’Azerbaijan settentrionale andrebbe ad estendersi oltre le 3.000 miglia (più di 4.800 chilometri).
Di recente, un notiziario russo commentava così la spesa di 110 milioni di dollari da parte degli USA per migliorare due delle sette nuove basi militari che il Pentagono ha acquisito sul Mar Nero di fronte alla Russia : “Le installazioni in Romania e in Bulgaria sono in linea con il programma di rilocazione delle truppe americane in Europa annunciato nel 2004 dall’allora Presidente George Bush. Il principale obiettivo è la dislocazione il più vicino possibile ai confini della Russia.” [3]

Il muro che sta per essere eretto e allacciato attorno a tutta la Russia Europea non è una ridotta difensiva, una barriera di protezione. Si tratta di una falange di basi e di strutture militari in avanzamento senza tregua.
Il mese scorso, il Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen era in Lituania per ispezionare la Base Aerea Siauliai, dalla quale gli aerei da guerra della NATO hanno condotto ininterrottamente pattugliamenti sopra il Mar Baltico per più di cinque anni, navigando sopra le coste della Russia, a tre minuti di volo da S. Pietroburgo.
In questa occasione, la nuova Presidente della Lituania Dalia Grybauskaite ha dichiarato: “Noi abbiamo ricevuto assicurazioni che la NATO è tuttora interessata ad impegnarsi nella difesa della regione Baltica… Sono contenta di vedere qui, in Lituania, il Segretario Generale della NATO, nell’unica, ma molto importante base aerea della NATO presente negli stati Baltici. Questo è uno dei punti cruciali di difesa NATO nella regione Baltica.” [4]
Nella contigua Polonia, un servizio giornalistico dello scorso aprile ha fornito dettagli sul grado dello sviluppo sempre crescente dell’Alleanza Atlantica nella nazione:
“Gli investimenti della NATO in infrastrutture di difesa in Polonia nei prossimi cinque anni potranno aumentare a più di un miliardo di euro (1 euro = 4,15 zloty)…
“La Polonia è forse l’area del più largo volume di investimenti della NATO nel mondo. 
“Al presente, sono vicini al completamento lavori di costruzione o di ammodernamento su sette aeroporti militari, due porti marittimi, cinque depositi di carburante, come su sei basi strategiche radar a lungo raggio. Progetti di posto comando di difesa aerea a Poznan, Varsavia, e Bydgoszcz hanno già ricevuto il benestare inizio lavori, come pure un progetto di comunicazioni radio a Wladyslawowo.
“Fra le altre cose, i nuovi investimenti includeranno l’equipaggiamento di aeroporti militari a Powidz, Lask e Minsk Mazowiecki con nuove installazioni di logistica e difesa.” [5]
La Polonia, presto, ospiterà qualcosa come 196 missili Americani intercettori Patriot e 100 militari incaricati del loro funzionamento, ed esiste un sito analogo per il dispiegamento di batterie di missili Americani anti-balistici SM-3. 
Come abbiamo fatto menzione in precedenza, Washington e la NATO si sono assicurati l’uso a tempo indefinito di sette basi militari in Bulgaria e Romania, prossime al Mar Nero della Russia, incluse le basi aeree di Bezmer e Graf Ignatievo in Bulgaria e la base aerea di Mihail Kogalniceanu in Romania. [6]
Il 28 ottobre si trovava in Romania il Gen. Roger Brady, comandante delle Forze Aeree USA in Europa, per sovrintendere alle manovre di addestramento militare congiunte, durante le quali “la Forza Aerea USA effettuava 100 missioni, metà delle quali avvenivano in collaborazione con la Forza Aerea della Romania.” [7]
Il Pentagono conduce esercitazioni annuali NATO “Brezza di Mare” in Ucraina, nella Crimea, dove è di base la Flotta russa del Mar Nero.

Inoltre dirige regolarmente manovre militari di “Risposta Immediata” in Georgia, la più ampia di queste esercitazioni da far risalire ai giorni che hanno preceduto l’attacco della Georgia contro l’Ossezia del Sud e il conflitto risultante con la Russia nell’agosto 2008, e attualmente una manovra è in fase di completamento.

Nel mese di maggio gli USA hanno condotto in Georgia le annuali esercitazioni tattiche  “Cooperative Longbow 09/Cooperative Lancer NATO Partnership for Peace”, con l’impiego di 1.300 uomini di truppa di 19 nazioni.[8]
Pochi giorni fa, si trovava in Georgia il Generale Comandante dell’Esercito USA in Europa, Generale Carter F. Ham, per “informarsi sull’addestramento di “Immediate Response 2009” in corso fra l’esercito USA e quello della Georgia” e per “visitare la Base Militare di Vaziani e sovrintendere alle esercitazioni.” [9]
Un ufficiale Russo, Dmitry Rogozin, parlava di queste esercitazioni militari congiunte e metteva in guardia che “Noi tutti abbiamo presente che simili attività avvenute lo scorso anno hanno avuto un seguito con gli avvenimenti di questo agosto.” [10]
In un giornale georgiano, un editoriale sulle manovre militari confermava le apprensioni Russe reiterando questo collegamento: “La Georgia sta combattendo in Afghanistan per la pace e la stabilità, in modo da assicurare alla fine pace e stabilità in Georgia, perché chi semina bene raccoglie senza dubbio meglio, nella pienezza dei tempi.” [11]. Che è come dire, dato che la Georgia assiste militarmente gli USA in Afghanistan, allora gli USA forniranno appoggio alla Georgia in qualche futuro conflitto con i suoi vicini nel Caucaso.

La stampa mondiale ha di recente riferito su una visita di tre giorni del Ministro degli Esteri Polacco Radoslaw Sikorski negli Stati Uniti per, fra le altre cose, “incontrare il Segretario di Stato USA Hillary Clinton…per discutere della situazione in Afghanistan e di una nuova proposta Statunitense per uno scudo missilistico” [12] e per tenere una conferenza alla Brookings Institution, dove ha trattato del programma di Partnership Orientale di Polonia, Svezia ed Unione Europea per inglobare  Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Moldavia ed Ucraina nell’orbita “Euro-Atlantica” e delle preoccupazioni di Mosca che l’Occidente stia muovendosi per assumere il controllo dell’area ex Sovietica: “L’Unione Europea non necessita del consenso della Russia.” [13]
Quantunque, ciò che ha suscitato maggiori controversie è stato il suo discorso ad una conferenza sponsorizzata dal Centro Internazionale di Studi Strategici (CSIS), dal titolo “Gli Stati Uniti e l’Europa Centrale: interessi strategici convergenti o divergenti?” 
Naturalmente, il principale motivo della conferenza era il ventesimo anniversario della fine della Guerra Fredda simbolizzata dallo smantellamento del Muro di Berlino.
L’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski presentava una relazione densa di riferimenti alle supposte “aspirazioni imperiali” della Russia, alle minacce Russe contro la Georgia e l’Ucraina e alle intenzioni della Russia di diventare una “potenza mondiale imperiale.” [14]
Sikorski, non un estraneo a Washington, qui essendo stato membro residente presso l’American Enterprise Institute e direttore esecutivo del New Atlantic Initiative dal 2002-2005, prima di ritornare in patria per diventare Ministro della Difesa della Polonia, suggeriva che le recenti manovre militari congiunte Bielorusso-Russe necessitavano di impegni più decisi della NATO nel Nord-Est dell’Europa.
Ribadiva che l’impegno di assistenza militare secondo l’Articolo 5 dello Statuto dell’Alleanza – fra parentesi, ecco il perché a presto andranno in Afghanistan almeno 3.000 soldati Polacchi – era troppo “vago” e proponeva come alternativa più concreta qualcosa come i 300.000 uomini di truppa USA di stanza nella Germania Ovest durante la Guerra Fredda.[15]
Successivamente, il governo polacco ha negato che il suo Ministro degli Esteri esplicitamente avesse invocato un dispiegamento di truppe americane, e di fatto non l’aveva chiesto, ma i suoi commenti erano in linea con diversi altri avvenimenti e dichiarazioni recenti.
Per esempio, lo scorso ottobre la Polonia dichiarava pubblicamente che era stato pianificato un imponente miglioramento delle sue forze armate per 60 miliardi di dollari.
“Il Ministro della Difesa Bogdan Klich rendeva di pubblico dominio un piano…per modernizzare l’esercito mediante 14 programmi: sistemi di difesa aerea, elicotteri da combattimento e da trasporto, modernizzazione della flotta, aerei per attività spionistica e telecomandati, simulatori da addestramento ed equipaggiamento per le truppe… Klich annunciava piani per la costruzione di un nuovo velivolo per addestramento al combattimento LIFT, di rampe di lancio per missili Langust, di obici auto-propulsi Krab, di rampe per razzi Homar, e di un numero maggiore di mezzi blindati Rosomak e dichiarava una spesa di 30 miliardi di zloty per la sola modernizzazione dell’esercito.” [16]
L’arrivo, in quello stesso periodo, del cacciatorpediniere USS Ramage della flotta da guerra statunitense con i suoi 250 marines, freschi di manovre NATO sulle coste della Scozia, “per partecipare ad una esercitazione militare con ufficiali della flotta polacca,” prova che i desideri di Sikorski non erano stati ignorati. [17]
Prima della sua partenza, la rete televisiva locale TVN24 riportava che la USS Ramage “mentre partecipava alle manovre congiunte USA-polacche…sparava sulla costa della Polonia”. [18]  [N.d.T.: Il 28 ottobre, sono partiti tre colpi da una mitragliatrice M240 della USS Ramage, che stazionava in prossimità del porto della cittadina Gdynia. I colpi sono piovuti sulla cittadina polacca, senza provocare vittime. La notizia si è diffusa dopo che diversi abitanti della cittadina si erano rivolti alle locali autorità di polizia per denunciare di aver udito forti spari di origine sconosciuta. La polizia polacca ha quindi abbordato la nave americana per avviare un’inchiesta sull’accaduto. Le autorità militari statunitensi hanno spiegato che un membro dell'equipaggio avrebbe accidentalmente fatto partire tre colpi, mentre puliva la M240. Questa è almeno la versione ufficiale che tuttavia lascia aperto più di un interrogativo, visto che le caratteristiche dell’arma rendono piuttosto improbabile che un colpo possa partire durante la sua manutenzione. La USS Ramage stava ritornando al porto dopo l’esercitazione NATO sul Mar Baltico.]
Il Comandante Tom Williamson comunicava all’ambasciata USA a Varsavia: “L’equipaggio della USS Ramage è stato sottoposto ad inchiesta in relazione all’accaduto.” [19]

Successivamente, un’altra nave da guerra americana, il cacciatorpediniere lanciamissili USS Cole dotato di missili teleguidati di tipo Aegis, che aveva partecipato alle manovre navali congiunte in Scozia “Joint Warrior 09-2”, attraccava in Estonia.
Agli inizi di questo mese, la fregata lanciamissili USS John L. Hall che vedeva imbarcati “uomini di marina del Nono Distaccamento dello Squadrone 48 di Elicotteri Anti-Sottomarino” [20] arrivava in Lituania.
Sulla visita, un ufficiale della marina USA dichiarava: “Noi siamo qui come esempio della presenza continua della Marina Militare degli Stati Uniti nel Mar Baltico…Inoltre siamo qui per collaborare con la Marina da Guerra lituana, nostro partner prezioso, e la nostra visita fa parte delle relazioni in corso fra i nostri due paesi e le nostre due flotte.” [21]
A dimostrazione di come navi da guerra americane reiterassero la loro “presenza continua nel Mar Baltico”, il Ministro della Difesa dell’Estonia affermava che “la NATO possiede piani di difesa per i Paesi Baltici, e questi piani sono in pieno sviluppo” [22], e il suo collega lituano ribadiva: “Per la Lituania è importante che il nuovo Concetto di Alleanza Strategica vada ad includere punti che prevedono l’unità collettiva per l’applicazione della sicurezza strategica nella regione del Mar Baltico e la comune responsabilità per il futuro delle operazioni militari dell’Alleanza.” [23]
Il Ministro della Difesa estone Jaak Aaviksoo dichiarava all’Associated Press “che il suo paese vedeva all’orizzonte nuove minacce, dal momento che la Russia aveva invaso la Georgia l’anno passato e dal fatto che nel 2007 un attacco cibernetico aveva preso di mira l’Estonia.”
“Aaviksoo progetta di incontrare il Ministro della Difesa degli USA Robert Gates” il 10 novembre. [24]
Il Presidente dell’Estonia Toomas Hendrik Ilves, un espatriato americano ed ex attivista della Radio Libera Europa, proponeva che manovre NATO si tenessero negli stati baltici. 
Recentemente, il Ministro della Difesa Imants Liegis confermava che “nella prossima estate la Lituania avrebbe condotto esercitazioni militari su larga scala, in risposta alle manovre strategiche russo-bielorusse.” [25] Senza dubbio, non da sola!
Il catalogo soprastante delle attività militari e delle dichiarazioni bellicose fa supporre un alt alle ottimistiche aspettative risultanti dalla fine della Guerra Fredda, che di fatto non è mai terminata ma ha spostato le sue operazioni, in buona sostanza, verso Oriente.
Comunque, coloro i cui i nomi saranno evocati ed invocati il 9 novembre in occasione dell’anniversario dell’abbattimento del Muro di Berlino non hanno avuto successo nell’immediato periodo successivo.
Tre anni dopo la caduta del Muro, George H. W. Bush senior, perfino un anno dopo l’Operazione “Tempesta sul Deserto”, è diventato solo il terzo Presidente americano, a partire dall’Ottocento, a perdere il tentativo di una rielezione. 
Quattro anni dopo la caduta, Mikhail Gorbachev concorreva alla Presidenza della Russia e riceveva solo lo 0,5% dei voti.
Nella sua ultima corsa alla Presidenza della Polonia nel 2000, Lech Walesa, visto che il suo elettorato nazionale aveva finalmente capito qualcosa sul suo conto, ha ricevuto l’1% dei consensi.
Ma lui e i suoi camerati occidentali eroi della Guerra Fredda marciano ancora e sempre per affrontare la Russia durante l’attuale fase di un nuovo conflitto.
In luglio, in quella che è stata intestata come “Una lettera aperta all’Amministrazione Obama dall’Europa Centrale e Orientale”, campioni della vecchia/nuova Guerra Fredda, come Lech Walesa, Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Alexander Kwasniewski e Vaira Vike-Freiberga – Adamkus ha vissuto per diversi decenni negli USA e Vike-Freiberga in Canada – hanno inchiodato la loro retorica anti-russa a toni che non si erano mai più uditi dall’epoca dell’Amministrazione Reagan.
Questi, alcuni dei loro commenti:
“Noi abbiamo operato per costruire rapporti d’amicizia e relazioni bilaterali. Noi rappresentiamo voci dell’Atlantismo all’interno della NATO e dell’Unione Europea. Le nostre nazioni si sono sempre impegnate a fianco degli Stati Uniti nei Balcani, in Iraq, e attualmente in Afghanistan… Nubi tempestose hanno cominciato ad ammassarsi all’orizzonte della politica estera”
“Le nostre speranze per un miglioramento delle relazioni con Mosca e che finalmente Mosca si capacitasse del tutto della nostra completa sovranità ed indipendenza, dopo il nostro ingresso nella NATO e nell’Unione Europea, non si sono pienamente realizzate. Al contrario, la Russia è ritornata ad essere una potenza revisionista inseguendo un programma ottocentesco, però con tattiche e metodi del XXI secolo.”
“Il pericolo è che la strisciante intimidazione di Mosca e i tentavi di allargare la sua influenza nella regione possano portare fuori tempo ad una neutralizzazione de facto della regione.” 
“La nostra regione ha patito quando gli Stati Uniti hanno dovuto sottostare al ‘realismo’ di Yalta.
E ha goduto benefici quando gli Stati Uniti hanno usato la loro potenza in una lotta di principio. Questo è stato cruciale durante la Guerra Fredda e quando si sono aperte le porte alla NATO. Avesse prevalso un analogo ‘realistico’ punto di vista agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, ora noi non saremmo nella NATO…”
“Noi sentiamo il bisogno di un rafforzamento della NATO come il più importante punto di collegamento fra Stati Uniti ed Europa per la sicurezza. Per noi la NATO rappresenta la sola credibile potenza che ci garantisce in modo deciso la sicurezza.  La NATO deve riconfermare la sua funzione centrale di difesa collettiva, anche adesso che siamo nel XXI secolo soggetti a nuove minacce.  Un fattore chiave a partecipare con tutte le nostre potenzialità alle missioni di spedizione oltremare della NATO è il pensiero che noi siamo sicuri a casa nostra.” [26]
Quindi, la missiva collettiva clamorosamente appoggiava i progetti USA per l’intercettazione di missili nell’Europa Orientale e appoggiava la Georgia di Mikheil Saakashvili (un altro ex-residente negli Stati Uniti) come motivo di riferimento per un nuovo confronto con la Russia. 
Il 22 settembre, il britannico The Guardian pubblicava una simile “Lettera Aperta” di gruppo, questa volta sottoscritta da Vaclav Havel, Valdas Adamkus, Mart Laar, Vytautas Landsbergis, Otto de Habsbourg, Daniel Cohn Bendit, Timothy Garton Ash, André Glucksmann, Mark Leonard, Bernard-Henri Lévy, Adam Michnik e Josep Ramoneda, che faceva appello all’Europa per un appoggio alla Georgia, e metteva in evidenza storiche allusioni ad avvenimenti attuali, prima del settantesimo anniversario dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale e del ventesimo della caduta del Muro di Berlino:  
“Nel momento in cui l’Europa ricorda la vergogna del patto Ribbentrop-Molotov del 1939 e gli accordi di Monaco del 1938, e quando si prepara a celebrare la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento della Cortina di Ferro del 1989, una questione ci sorge nella mente: “Abbiamo veramente imparato le lezioni della storia?”
“Vent’anni dopo l’emancipazione di mezzo continente, un nuovo muro sta per essere innalzato in Europa – questa volta attraverso il territorio sovrano della Georgia.
“Noi facciamo appello urgente ai 27 leader democratici dell’Unione Europea di definire una attiva strategia opportuna ad aiutare la Georgia a riguadagnare pacificamente la sua integrità territoriale e ad ottenere il ritiro delle forze russe illegalmente stazionanti sul suolo georgiano… Diventa essenziale che l’Unione Europea e i suoi stati membri inviino un chiaro ed inequivocabile messaggio all’attuale dirigenza Russa.” [27]
La Georgia è divenuta una duplice Cecoslovacchia, quella del 1938 e quella del 1968, una nuova Berlino, una nuova Polonia e così via.
Personaggi dell’Europa Orientale ed Occidentale, come i firmatari dell’appello precedente, contrariamente a quello che asseriscono, sono nostalgici della Guerra Fredda e ansiosi di lanciare una nuova crociata contro una Russia stroncata ed indebolita.  
Nel pieno stile degli “interventi umanitari” degli anni Novanta del secolo scorso, queste campagne sono la loro merce in vendita.
Ma la richiesta di una maggior “potenza decisa” che gli Stati Uniti dovrebbero fornire in Europa, così come nel Caucaso e di una espansione della NATO verso i confini della Russia, può provocare una catastrofe, che il continente e il mondo erano stati abbastanza fortunati da avere scampato la prima volta.
Note:
[1] Agenzia russa di informazione Novosti, 6 novembre 2009
[2] Riportato da Bill Bradley, Foreign Policy (Politica Estera), 7 novembre, 2009
[3] Voce della Russia, 22 ottobre 2009
[4] Presidente della Repubblica di Lituania, 9 ottobre 2009
[5] Warsaw Business Journal, 20 aprile 2009
[6] Bulgaria, Romania: basi USA e NATO per la guerra ad Oriente.  Stop NATO, 24 ottobre 2009
  http://rickrozoff.wordpress.com/2009/10/25/bulgaria-romania-u-s-nato-bases-for-war-in-the-east
[7] U.S. Air Forces in Europa, 29 ottobre 2009
[8] Esercitazioni tattiche NATO in Georgia: minacce di una nuova guerra nel Caucaso.
Stop NATO, 8 maggio 2009 a: http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/28/nato-war-games-in-georgia-threat-of-new-caucasus-war
[9] Trend News Agency, 28 ottobre 2009
[10] Rustavi2, 31 ottobre 2009
[11] The Messenger, 3 novembre 2009
[12] Deutsche Presse-Agentur, 28 ottobre 2009
[13] Radio Polonia, 3 novembre 2009
[14] Video
   http://csis.org/multimedia/video-strategic-overview-us-and-central-europe-strategic-interests
[15] Audio
   http://csis.org/multimedia/corrected-us-and-central-europe-radoslaw-sikorski
[16] Radio Polonia, 27 ottobre 2009
[17] Radio Polonia, 28 ottobre 2009
[18] Russia Today, 28 ottobre 2009
[19] Radio Polonia, 28 ottobre 2009
[20] Comando degli Stati Uniti per l’Europa , 2 novembre 2009
[21) Ibid
[22] Baltic Business News, 27 ottobre 2009
[23] Defense Professionals, 26 ottobre 2009
[24] Associated Press, 2 novembre 2009
[25] Agenzia russa di informazione Novosti, 2 novembre 2009
[26] Gazeta Wyborcza, 15 luglio 2009
[27] The Guardian, 22 settembre 2009