mercoledì 24 marzo 2010

Verità e conseguenze dell’invasione di Gaza

Estratto dal nuovo libro di Norman Finkelstein ,“This Time We Went Too Far – Questa volta siamo andati troppo in là”
Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala

Originale da: Truth and Consequences in the Gaza Invasion
Questo articolo è stato estratto dal nuovo importante libro di Norman Finkelstein sull’aggressione a Gaza,“This Time We Went Too Far – Questa volta siamo andati troppo in là” pubblicato questo mese da OR Books. Per acquistare una copia del libro si prega di consultare OR Books. Questo volume non è disponibile nelle librerie o presso altri rivenditori online.


Lo sdegno dell’opinione pubblica suscitato dall’invasione di Gaza non è arrivato inaspettato, piuttosto ha segnato il nadir, il punto più basso di una curva che rappresenta il costante declino dell’appoggio ad Israele. Come suggerito dai dati di inchieste presso Americani ed Europei, sia Gentili che Ebrei, negli ultimi dieci anni la pubblica opinione è diventata sempre più critica nei confronti della politica di Israele. Le immagini orrende di morte e di distruzione diffuse in tutto il mondo durante e dopo l’invasione hanno accelerato questo sviluppo di criticità.
Un anno dopo, il britannico Financial Times in un suo editoriale recitava: “Il ripetersi sempre più pesante e la brutalità della guerra in questa regione instabile ha spostato l’opinione pubblica internazionale, rammentando ad Israele di non essere sopra alla legge. Israele non può più a lungo dettare i termini della discussione e del confronto.”
Un sondaggio negli Stati Uniti, che registrava le reazioni dopo l’attacco a Gaza, metteva in evidenza come gli USAmericani che si esprimevano dichiarandosi sostenitori di Israele precipitavano dal 69% di prima dell’attacco al 49% nel giugno 2009, mentre coloro che ritenevano che gli USA dovevano appoggiare Israele piombavano dal 69% al 44%.
Consumato dall’odio, sospinto da autogiustificazioni e confidando di poter controllare o intimidire la pubblica opinione, Israele procedeva a Gaza come se potesse farla franca per un assassinio di massa alla piena luce del giorno. Ma, mentre il sostegno ufficiale dell’Occidente ad Israele restava fedelmente compatto, la carneficina scatenava un’ondata di sdegno popolare in tutto il mondo.
Che questo derivasse dal fatto che l’aggressione avveniva sulla scia della devastazione procurata da Israele in Libano, o per la spietata persecuzione di Israele nei confronti della gente di Gaza, o per la pura vigliaccata dell’assalto, l’invasione di Gaza è sembrata segnare un punto di svolta nell’opinione pubblica, che richiama alla mente la reazione internazionale al massacro del 1960 a Sharpeville nel Sud-Africa dell’apartheid.

Era prevedibile che organizzazioni ufficiali delle comunità della diaspora ebraica con collegamenti di vecchia data con Israele conferissero un appoggio a scatola chiusa. Ma, allo stesso tempo, organizzazioni ebraiche progressiste di nuova costituzione prendevano le distanze in misura più o meno rilevante. Mentre nel passato gli Ebrei tradizionalmente avevano appoggiato le guerre di Israele, durante questa invasione la maggior parte esprimeva perplessità, fatta eccezione per una minoranza sempre più ridotta di anziani che si schierava prendendo le difese di Israele e una minoranza in espansione di giovani che causticamente lo denunciavano.
Fra il dissociarsi crescente degli Ebrei più giovani dalla bellicosità di Israele e l’aumento delle perplessità degli Ebrei in generale nel fornire ad Israele appoggio, il massacro di Gaza registrava il crollo del sostegno fino a questo momento incondizionato alle guerre di Israele.
Per giunta, mentre le dimostrazioni contro la guerra in molti paesi occidentali erano etnicamente eterogenee (includevano una significativa presenza di Ebrei!), le dimostrazioni “pro” Israele erano composte quasi esclusivamente da Ebrei.
Il fatto che l’opposizione attiva alla politica di Israele, per esempio nei campus universitari, si sia diffusa da nuclei arabo-musulmani verso la generalità di opinione, mentre l’appoggio energico ad Israele era ristretto ad una frazione dell’insieme etnico ebraico, questo è un evidente indicatore di che direzione hanno preso le cose. È passato il tempo dello “splendore” di Israele, sembra irrevocabilmente, e l’Israele deturpato che in anni recenti è andato a sostituirsi nella assunzione pubblica di consapevolezza è motivo di crescente imbarazzo. Non è che il comportamento di Israele sia divenuto tanto peggiore di quello in precedenza, ma piuttosto è la documentazione di questo comportamento che, finalmente, è venuta alla luce ed è andata diffondendosi.

La verità non può più a lungo essere negata o venire respinta. La documentazione del conflitto arabo-israeliano esposta da valenti storici è in netto contrasto con la versione volgarizzata del calibro di Exodus di Leon Uris.
Le prove delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele raccolte da importanti organizzazioni degne di fiducia non possono conciliarsi con il suo decantato impegno alla “purezza delle armi.”
Le deliberazioni di istituzioni politiche e giudiziali di assoluto rilievo pongono pesanti dubbi sull’impegno conclamato di Israele per una risoluzione pacifica del conflitto.
Per tanto tempo i “supporter” di Israele hanno sviato l’impatto di questa registrazione di documenti raccolti, brandendo le spade gemelle dell’Olocausto e del “neo anti-Semitismo.” Ci si prefiggeva che gli Ebrei non sottostassero agli standard convenzionali morali/legali dopo le sofferenze uniche che avevano dovuto sopportare nel corso della Seconda Guerra Mondiale e si affermava che il criticismo nei confronti della politica di Israele era motivato da un odio sempre rinascente verso gli Ebrei. Tuttavia, a parte l’inevitabile indebolimento derivato da overdose, queste armi si sono dimostrate molto meno efficaci una volta che l’insieme delle critiche verso Israele irrompeva nel flusso dell’opinione pubblica.
Incapaci di smussare le critiche contro Israele, ora gli apologeti come per magia fanno spuntare bizzarre teorie per giustificare questo ostracismo.

George Gilder, guru della reaganomics, postula che un sistema di libero mercato singolarmente libera potenziale umano e allora in un tale sistema gli Ebrei sono e devono essere “rappresentati in modo elitario nelle gerarchie più alte” dato che loro sono forniti di maggior talento. Per converso, se gli Ebrei non esercitano il predominio, questo avviene in quanto si impone un sistema economico men-che-ideale. L’anti-Semitismo scaturisce dal risentimento procurato dalla “superiorità e eccellenza ebraica” e dalla “manifesta supremazia degli Ebrei su tutti gli altri gruppi etnici,” mentre l’odio per Israele è dettato dal fatto che Israele si è evoluto (sotto la tutela ispirata di Benjamin Netanyahu) in un perfetto sistema a libero mercato che “condensa il genio degli Ebrei,” rendendolo “una delle potenze capitaliste guida ” ed oggetto delle invidie nel mondo: “Israele è odiato soprattutto per le sue virtù.” Se figurano Ebrei in posizione preminente fra i critici di Israele, questo è dovuto al fatto che “eccellono senza alcuna difficoltà in tutti i settori intellettuali tanto da sorpassare tutti i rivali anche nell’arena dell’anti-Semitismo.”
Invece, l’Occidente deve preservare e proteggere Israele dal “mondo delle chimere e delle fantasie a somma-zero della vendetta jihadista e di morte ” e dalle “masse di barbari”, perché il genio ebraico ha permesso all’umanità di “svilupparsi e prosperare”: gli Ebrei sono “essenziali alla razza umana.”
“Se Israele venisse distrutto, l’Europa capitalista andrebbe incontro alla stessa sorte e l’America, come epitome di capitalismo produttivo e creativo stimolato dagli Ebrei, si troverebbe in pericolo”; “Israele si trova all’avanguardia della futura generazione tecnologica e sulla linea del fronte di una nuova guerra razziale contro il capitalismo e l’individualità e il genio ebraico”; “Proprio come le economie liberiste sono necessarie per la sopravvivenza del genere umano del pianeta, così la sopravvivenza degli Ebrei risulta vitale per il trionfo delle economie liberiste. Se Israele venisse schiacciato o distrutto, dovremo soccombere alle forze che ovunque prendono come obiettivo il capitalismo e la libertà.”

Dall’altra parte dell’Atlantico, Robin Shepherd, direttore per gli affari internazionali alla Henry Jackson Society, con sede a Londra, afferma che Israele ha dovuto subire forti critiche in Occidente non tanto per il suo atteggiamento rispetto ai diritti umani ma in quanto si tratta di uno Stato democratico, capitalista, che combatte in prima linea a fianco degli Stati Uniti contro la minaccia portata alla “civiltà” dall’ Islam radicale: “Israele è divenuto un nemico non per qualcosa che ha fatto” ma “perché si trova dalla parte opposta della barricata.” La “principale piattaforma che genera tensioni in Occidente” per questa “ondata travolgente di isteria, inganno e distorsione contro lo Stato ebraico” è costituita da Marxisti totalitaristi e da simpatizzanti liberal-sinistrorsi che, delusi dal proletariato occidentale ed insoddisfatti per le lotte di liberazione nel Terzo Mondo, hanno fatto causa comune con l’“Islam militante” per distruggere l’ordine mondiale liberal-capitalista. Quantunque questi critici di Israele non siano anti-Semiti nel senso tradizionale “soggettivo” di disprezzare gli Ebrei in quanto tali, costoro sono colpevoli di anti-Semitismo “oggettivo”, visto che Israele è assolutamente centrale per l’identità ebraica nel mondo contemporaneo.
Ma l’opposizione ad Israele molto probabilmente proviene anche dai sangue blu dell’ancien régime che desiderano restaurare le gerarchie del vecchio mondo, prima che gli Ebrei arrivassero a sconvolgerle. Questa cospirazione “neo-anti-Semitica” largamente diffusa comprende “la maggior parte” di coloro che accusano Israele di commettere crimini di guerra e altre violazioni del diritto internazionale. Allora, è ben inteso che dietro alla condanna di Israele da parte di Amnesty International e della Corte Internazionale di Giustizia, dei Nobel per la pace Jimmy Carter e Mairead Corrigan Maguire, del Financial Times e della BBC si nasconde la mano diabolica della congrega fra radicali di sinistra, fanatici islamici ed aristocratici latifondisti.
Per quelli che desiderano saperne di più, Shepherd “caldamente” raccomanda il film The Case for IsraelLa causa in favore di Israele di Alan M. Dershowitz.
Sebbene queste giustificazioni dell’isolamento di Israele siano carenti di credibilità, è fuori dubbio che le azioni di Israele siano in caduta precipitosa. Mentre Israele aveva guadagnato in Occidente molti simpatizzanti dopo le sue splendide vittorie nel giugno 1967, in anni recenti Israele è stato relegato in uno status quasi di paria, specialmente in Europa.
Una ricerca del 2003 dell’Unione Europea ha definito Israele come la più grande minaccia alla pace mondiale. Un sondaggio di opinione del 2008 indicava Israele come il più grosso ostacolo al conseguimento della pace nel conflitto israelo-palestinese. In un sondaggio Servizio dal Mondo della BBC realizzato alla vigilia dell’invasione di Gaza, non meno di 19 su 21 paesi presi in considerazione esprimevano un predominante punto di vista negativo su Israele.

Intanto, in un articolo dal titolo “Second Thoughts about the Promised Land – Ripensamenti sulla Terra Promessa,” l’ Economist riportava nel 2007 che, sebbene “molti Ebrei della diaspora ancora danno il loro sostegno forte ad Israele…il loro grado di incertezza sta aumentando.”
Voci di Ebrei in dissenso hanno cominciato a coagularsi in Gran Bretagna, Germania e in tutto il mondo, sfidando l’egemonia delle organizzazioni ufficiali ebraiche che ripetono a pappagallo la propaganda di Israele.
Negli Stati Uniti l’immagine nel suo complesso e le tendenze forse non sono così pronunciate, ma sono non meno degne di nota. Sulla base di dati forniti da sondaggi si può ampiamente affermare che gli USAmericani avevano su Israele punti di vista favorevoli in maniera consistente e simpatizzavano molto più per Israele che per i Palestinesi. Ora anche gli Statunitensi in modo schiacciante appoggiano un approccio USA imparziale nell’ambito del conflitto israelo-palestinese e più di recente hanno espresso “equanimi livelli di simpatia ” per entrambe le parti, mentre una sostanziale minoranza ritiene che la politica degli USA sia incline (od oscilli troppo) a favore di Israele; una robusta maggioranza di USAmericani “pensano che Israele non stia facendo bene la sua parte nel metttere in atto tentativi di risolvere il conflitto”; e in certe occasioni gli Statunitensi hanno sostenuto l’uso di sanzioni per frenare Israele.
Significativamente, una maggioranza di Statunitensi inoltre sono favorevoli all’insediamento di due Stati sui confini del giugno 1967, fatto che comporta il totale ritiro di Israele dai territori occupati durante la guerra del giugno. “Sì, i sondaggi rilevano un forte appoggio per Israele,” osservava nel 2007 M. J. Rosenberg, direttore per l’analisi politica del Forum sulle Politiche di Israele, a proposito delle recenti tendenze; comunque, “questo appoggio ad Israele, che ben esiste, è largo ma non troppo radicato.”
Questo fenomeno può essere riscontrato quasi ogni giorno nella rubrica “Lettere alla Redazione”. Ogni volta che appare un editoriale su Israele, specialmente se contiene critiche, vengono indirizzate al direttore tantissime lettere. Molte appoggiano le posizioni di Israele. E quasi senza eccezione, queste lettere sono scritte da Ebrei. Quella larga maggioranza [di USAmericani non Ebrei] che presumibilmente è sostenitrice di Israele in effetti non interviene mai.
Secondo un sondaggio del 2007 della Lega Anti-Diffamazione (ADL) l’opinione favorevole degli Statunitensi nei confronti di Israele si trova segnatamente ad un livello inferiore rispetto alla loro favorevole opinione verso la Gran Bretagna e il Giappone, mentre è allo stesso livello di quella relativa all’India e al Messico. Quasi la metà di coloro che hanno risposto al sondaggio ritiene che gli USA dovrebbero collaborare con gli Stati arabi “moderati”, “anche a spese di Israele.”
La metà o più degli interpellati ritenevano di stigmatizzare Israele ed Hezbollah allo stesso modo per la guerra in Libano dell’estate 2006 ed appoggiavano una (più) neutrale presa di posizione degli Stati Uniti.
Per di più, in anni recenti, influenti congregazioni religiose, come la Chiesa Presbiteriana USA, il Consiglio Mondiale delle Chiese, la Chiesa Unita di Cristo e la Chiesa Unita Metodista, tutte hanno sostenuto iniziative, compreso il disinvestimento azionario e dismissioni d’impresa, per forzare Israele a mettere fine all’occupazione.

Un’indagine del 2005 condotta dal sondaggista ebreo Steven M. Cohen rilevava che “l’attaccamento degli Ebrei statunitensi ad Israele si è indebolito sensibilmente negli ultimi due anni…, dando continuità ad un andamento che dura da tempo.”
Gli interpellati dal sondaggio che ribadivano le loro preoccupazioni per Israele erano in numero inferiore rispetto ad altri di sondaggi precedenti di analoga natura.
Sorprendentemente, non vi è un parallelo declino nelle altre dimensioni di identità ebraica, compresa l’osservanza religiosa e l’affiliazione comunitaria.
La ricerca riscontrava che era un 26% ad affermare di essere “veramente” attaccato emozionalmente ad Israele, in confronto al 31% che dichiarava lo stesso sentimento in una simile inchiesta condotta nel 2002.
Circa i due terzi, il 65%, ribadiva di seguire attentamente le notizie riguardanti Israele, in diminuzione dal 74% del 2002, mentre il 39% dichiarava di discutere frequentemente sulla questione Israele con amici ebrei, in diminuzione dal 53% del 2002.
Inoltre, Israele veniva meno come componente dell’identità ebraica personale di coloro che erano stati coinvolti nell’inchiesta. Quando veniva loro proposta una selezione di fattori, come la religione, la comunità e la giustizia sociale, così come “l’atteggiamento generoso nei confronti di Israele,” e si richiedeva, “Per lei personalmente, l’essere ebreo comporta qualche conseguenza?,” il 48% dichiarava che Israele aveva una “qualche” importanza, rispetto al 58% del 2002.
Ancora, il 57% affermava che “l’atteggiamento generoso nei confronti di Israele è una parte veramente importante del mio essere ebreo,” confrontato con il 73% di una inchiesta consimile del 1989.
Un sondaggio del 2007 del Consiglio Ebraico Americano rilevava che il 30% di Ebrei si sentiva “abbastanza distante” o “decisamente distante” da Israele.
Cohen pronostica: “A lungo andare prevedo una polarizzazione nella comunità ebraica degli USA, da una parte un piccolo numero in crescita più devoto e attaccato ad Israele, d’altro canto un gruppo più ampio che si lascia trasportare lontano.”
Un sondaggio del 2006 metteva in evidenza che, fra gli Ebrei USAmericani sotto i 40 anni, almeno un terzo si sentiva “abbastanza distante” o “decisamente distante” da Israele, mentre un sondaggio del 2007 trovava che fra gli Ebrei di età inferiore ai 35 anni un buon 40% registrava uno “scarso attaccamento” a Israele (solo un 20% dimostrava un “alto attaccamento”). E cosa straordinaria, meno della metà rispondeva affermativamente che “la distruzione di Israele sarebbe stata una tragedia personale.”
L’ex presidente dell’Agenzia Ebraica recentemente suonava l’allarme per il fatto che “meno del 24% dei giovani Ebrei nel Nord America fanno parte di organizzazioni ebraiche. Meno del 50% degli Ebrei del Nord America sotto i 35 anni provano un forte senso di appartenenza al popolo ebraico. Meno del 25% di Ebrei del Nord America sotto i 35 anni si definiscono Sionisti.”

Nei campus nazionali l’appoggio ad Israele si limita a quegli studenti ebrei che fedeli al sionismo sono riuniti nelle Hillel. Uno studio commissionato da organizzazioni di sostegno ebraico riporta : “Gli studenti ebrei dei college sono indiscutibilmente meno attaccati ad Israele rispetto a quelli delle generazioni precedenti. Israele sta perdendo la battaglia nei cuori e nelle menti di questa schiera.” Infatti, di quasi mezzo milione di studenti ebrei che frequentano istituti di studi superiori, “solo circa il cinque per cento hanno qualche frequentazione con la comunità ebraica.”
Perplessità nei confronti di Israele, che confina con la disaffezione, può essere riscontrata anche in influenti settori della società statunitense, nel pubblico dei lettori e sempre nelle personalità di spicco della vita intellettuale degli Stati Uniti.
Un recente sondaggio ha riscontrato che la maggioranza degli opinion-leader negli USA considera l’appoggio ad Israele come la “ragione più importante dei contrasti che gli Stati Uniti hanno in tutto il mondo.” 
In un saggio del 2003 sulla Review of Books di New York, lo storico ebreo Tony Judt sosteneva che “Israele oggi è un male per gli Ebrei ” e metteva in dubbio sia la vitalità economica che l’appetibilità di uno Stato ebraico.
John J. Mearsheimer dell’Università di Chicago e Stephen M. Walt dell’Harvard Kennedy School, erano i coautori nel 2006 di un autorevole documento che riportava alle giuste proporzioni la storia idealizzata dell’immagine di Israele e in cui si asseriva che Israele era diventata una “passività strategica ” per gli Stati Uniti.
Un libro dell’ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, provocatoriamente intitolato Palestine Peace Not Apartheid - Pace in Palestina, no apartheid, deplorava la politica di Israele nei Territori Occupati di Palestina e assegnava ad Israele la diretta responsabilità di avere trascinato il processo di pace in un vicolo cieco.
Sebbene la lobby ebraica abbia scatenato contro questi interventi contrattacchi al vetriolo, le sue solite calunnie presuntive di anti-Semitismo e di negazionismo dell’Olocausto non hanno fatto breccia. Quando, nel 2006, le pressioni della lobby hanno portato alla cancellazione di una conferenza già programmata di Tony Judt, egli ha assunto immediata celebrità nei circoli intellettuali degli Stati Uniti. I suoi critici, come quel Abraham H. Foxman della Lega Anti-Diffamazione, venivano derisi per “scagliare spaventose accuse di anti-Semitismo” e per essere un “anacronismo.” Carter, nondimeno, veniva accusato di essere un plagiario, in paga degli sceicchi arabi, un anti-semita, un apologeta del terrorismo, un simpatizzante dei Nazi e un negazionista al limite del lecito dell’Olocausto. Tuttavia, il libro di Carter è finito nella lista dei bestseller del New York Times e vi è rimasto per mesi, vendendo qualcosa come 300.000 copie in brossura. Sebbene snobbato dal presidente della Brandeis University, al contrario Carter riceveva una standing ovation dal corpo studentesco quando si era recato a parlare presso quella istituzione ebraica storica. (Metà dell’auditorio usciva dalla sala quando il professore di diritto di Harvard Alan M. Dershowitz si era alzato per replicare a Carter).
Mearsheimer e Walt hanno dato alle stampe per i tipi della casa editrice Farrar, Straus e Giroux, il loro libro, The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy - La Israel Lobby e la politica estera degli Stati Uniti, che è diventato anch’esso un bestseller del Times. [N.d.tr.: sorprendentemente edito in italiano da Mondadori]
Si tratta di un ulteriore testimonianza delle fortune declinanti di Israele; nel corso della durata in carica del primo ministro Ehud Olmert, anche Foxman e il sempiterno supporter di Israele Elie Wiesel si sono dati a stigmatizzare Israele per avere mancato di perseguire la pace.

Il malcontento pubblico, che iniziava a ribollire nei confronti della politica di Israele in anni recenti, ha raggiunto il punto di ebollizione dell’indignazione nel corso dell’invasione di Gaza.
Malgrado il blitz propagandistico orchestrato da Israele con estrema oculatezza; malgrado l’inclinazione in modo schiacciante filo israeliana dei servizi informativi dei mezzi di comunicazione, specialmente durante i primi giorni dell’aggressione; e malgrado il sostegno all’assalto ufficialmente dichiarato in Occidente – malgrado tutto questo, grandi manifestazioni popolari in tutta l’Europa Occidentale (Spagna, Italia, Germania, Francia, e Gran Bretagna) hanno fatto scomparire per dimensioni le dimostrazioni in favore di Israele.
Un’ondata di occupazioni studentesche si sono diffuse rapidamente per tutta la Gran Bretagna, comprendendo Oxford, Cambridge, Manchester, Birmingham, London School of Economics, School of Oriental and Asian Studies, Warwick, King’s, Sussex, e Cardiff.
Perfino in tradizionali bastioni di appoggio ad Israele come il Canada, dove la propensione filo israeliana del sistema politico di estrema destra e dei media è particolarmente intensa, una pluralità di settori dell’opinione pubblica ha disapprovato l’aggressione e l’Unione canadese del Pubblico Impiego approvava una mozione che proponeva un boicottaggio accademico di Israele.
Dichiarando dopo il cessate-il-fuoco che “gli avvenimenti di Gaza ci hanno colpito profondamente,” un gruppo di 16 fra giudici e inquirenti di tutto il mondo di grandissima esperienza – fra cui Antonio Cassese (Primo Presidente e Giudice del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia e Presidente della Commissione di Inchiesta dell’ONU per il Darfur) e Richard Goldstone (Procuratore Generale del Tribunale Internazionale per i Crimini nella ex Jugoslavia e nel Rwanda e Presidente della Commissione di Inchiesta dell’ONU per il Kosovo) facevano appello per un’“inchiesta internazionale sulle gravi violazioni delle leggi di guerra commesse da tutte le parti in conflitto a Gaza.”

Non stupisce il fatto che gli apologeti di Israele attribuiscano la diffusa indignazione per l’invasione di Gaza all’anti-Semitismo. Può essere postulata la norma generale che più profondo è l’abisso in cui affonda la condotta criminale di Israele più alto è il livello dei decibel degli strilli di anti-Semitismo. Abraham H. Foxman dichiarava che “gli Ebrei devono affrontare una epidemia, una pandemia di anti-Semitismo. Si tratta di un anti-Semitismo il più intenso, il più diffuso, il peggiore che si possa ricordare in tempi recenti.” Questo fomentare paure da parte di Foxman non era una novità, visto che aveva pronosticato tempo addietro nel 2003 che l’anti-Semitismo stava sollevando “una grave minaccia alla sicurezza del popolo ebraico, come quella che si era dovuto affrontare negli anni Trenta.”
Proprio come nel passato, i risultati di sondaggi usati per dare fondamento a queste esagerazioni registravano “indicatori” di “opinioni del più pernicioso anti-Semitismo,” tali da riscontrare che “larghi settori dell’opinione pubblica in Europa continuano a ritenere che gli Ebrei ancora parlino troppo di quello che è capitato loro durante l’Olocausto.” Secondo il “filosofo” della comunicazione Bernard-Henri Lévy, di Parigi, chi mette in dubbio che l’olocausto nazista sia stato uno “spartiacque morale nella storia dell’uomo” dovrebbe essere considerato un anti-Semita.
Alcuni episodi, certamente sgradevoli, di presunto anti-Semitismo in Europa si sono manifestati in e-mail e scritte murali, mentre l’anti-semitismo europeo, nonostante la montatura propagandistica, impallidiva rispetto al pregiudizio contro i Musulmani. (Un aumento di animosità nei confronti di Ebrei e Musulmani, negli ultimi anni le due curve tendono a correlarsi, appare in parte dovuto ad una rinascita di etnocentrismo fra gli Europei più anziani, meno educati e politicamente conservatori.)
Tuttavia è più vicino al vero che la messa in atto da parte di uno Stato, auto-proclamatosi ebraico, di azioni sfrenate omicide ripetute in Libano e a Gaza, e l’aperto sostegno a questi comportamenti violenti conferito da parte di organizzazioni ufficiali ebraiche di tutto il mondo, siano stati la causa di deplorevoli, anche se completamente prevedibili, “esternazioni” secondo cui tutti gli Ebrei in generale venivano ritenuti responsabili.
Se, come ha asserito il Forum israeliano di Coordinazione dell’Opposizione all’anti-Semitismo, vi è stata “una rapida impennata in numero e in intensità dei casi di anti-Semitismo” durante il massacro di Gaza; se “con il cessate-il-fuoco vi è stato un marcato decremento in numero e in intensità dei casi di anti-Semitismo”; e se “un’altra vampata nella regione, simile all’operazione scatenata contro Gaza, probabilmente causerebbe una ancor più severa esplosione di attività anti-Semite contro le comunità ebraiche nel mondo,” allora un metodo efficace per combattere l’anti-Semitismo potrebbe essere per Israele quello di smetterla con i massacri.
È anche vero che il divario crescente fra il sostegno ufficiale ad Israele guerrafondaio e la repulsione popolare contro questo può alimentare teorie di complotti anti-Semitici.
Ad esempio, in Germania la dirigenza politica e l’insieme dei mezzi di comunicazione non sopportano alcuna posizione critica nei confronti di Israele a causa della “speciale relazione” che vede la sua origine nella “storica responsabilità” della Germania.
Il cancelliere Angela Merkel ha superato gli altri leader europei nell’abbracciare la causa di Israele durante l’invasione di Gaza. Tuttavia, recenti sondaggi hanno mostrato come il 60% dei Tedeschi respinge la nozione di obblighi particolari della Germania nei confronti di Israele, (i giovani rifiutano tutto questo per il 70%), il 50% ritiene che Israele sia un paese aggressivo e il 60% pensa che Israele persegua i propri interessi in modo spietato.
Più in generale, Gideon Levy richiamava alla mente “la scena surreale al momento culminante del brutale assalto a Gaza, quando i capi dell’Unione Europea si erano recati in Israele e pranzavano con il primo ministro facendo bella mostra di un appoggio unilaterale per la parte cha stava provocando morte e distruzione.” E sebbene fosse stato Israele a rompere la tregua e a scatenare l’invasione, i leader europei intrattenevano colloqui con gli Stati Uniti (e con il Canada) su come ostacolare l’accesso alle armi non agli aggressori ma alle vittime!
È solo questione di tempo prima che gli Europei comincino a chiedersi, se non lo hanno già fatto, per ordine di chi la loro politica estera si muova con queste modalità.

Ascrivere il disgusto popolare dei Gentili per il massacro di Gaza all’anti-Semitismo si è dimostrato del tutto irrazionale a fronte del diffuso e palese dissenso ebraico. Mentre organizzazioni ebraiche ufficiali delle comunità diffondevano dichiarazioni in favore di Israele, proliferavano organizzazioni ebraiche ad hoc che presentavano istanze che deploravano l’invasione.
Più significativamente, Ebrei di notevole importanza nella vita delle comunità ebraiche censuravano le azioni di Israele, sebbene con toni in generale smorzati. Quando Israele era pronto a lanciare l’offensiva di terra dopo una settimana di attacchi aerei, un gruppo di Ebrei più illustri della Gran Bretagna, pur dichiarandosi “profondi e appassionati sostenitori” di Israele, esprimevano “orrore” all’aumentare “ delle perdite di vite umane da entrambe le parti ” e raccomandavano ad Israele di cessare immediatamente le operazioni militari contro Gaza.
In una nota più aspra, Gerald Kaufman, membro del Parlamento britannico ed ex ministro ombra per gli affari esteri, dichiarava durante un dibattito sulla questione di Gaza alla Camera dei Comuni: “Mia nonna si trovava ammalata a letto quando i Nazisti fecero irruzione nella sua città natale di Staszow. Un soldato tedesco la colpì a morte nel suo letto. Mia nonna non è morta per fornire una copertura ai soldati di Israele per andare ad ammazzare nonne palestinesi a Gaza.”
Kaufman arrivava ad accusare il governo di Israele di avere “crudelmente e cinicamente sfruttato il continuo senso di colpa fra i Gentili per il massacro di Ebrei nell’olocausto come giustificazione dei loro assassini di Palestinesi.”
Intanto, in Francia, il popolare scrittore ebreo Jean-Moïse Braitberg richiedeva al presidente di Israele di rimuovere il nome di suo nonno dal momumento di Yad Vashem dedicato alle vittime dell’olocausto nazista, “cosicché non possa essere usato per giutificare l’orrore che viene riversato sui Palestinesi.”
In Germania, Evelyn Hecht-Galinski, figlia dell’ex presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, scriveva : “Non il governo di Hamas eletto regolarmente, ma il brutale occupante…deve essere posto sul banco degli imputati all’Aja,” mentre la sezione germanica degli Ebrei europei per una Pace Giusta pubblicava una dichiarazione che sottolineava come “gli Ebrei Tedeschi Dicevano NO alle Uccisioni commesse dall’Esercito Israeliano.”
In Canada, otto donne ebree che occupavano il Consolato di Israele invitavano “tutti gli Ebrei a pronunciarsi contro questo massacro,” e il celebre pianista canadese Anton Kuerti dichiarava:
“Gli incredibili crimini di guerra che Israele sta commettendo a Gaza . . .mi fanno vergognare di essere Ebreo.”
In Australia, due romanzieri di fama ed un ex ministro del governo federale firmavano un appello di Ebrei che condannavano Israele per la sua aggressione gravemente spropositata.
L’amministrazione Bush e il Congresso degli Stati Uniti sostenevano Israele in modo inqualificabile nel corso di tutta l’invasione. Una risoluzione, che assegnava la totale colpevolezza delle morti e delle distruzioni ad Hamas, passava all’unanimità al Senato e alla Camera con 390 voti a favore e 5 contrari.
Molto del flusso di informazioni nei media negli Stati Uniti, in modo altrettanto sfacciato, era in linea con la parte in causa israeliana. Il giornalista Max Blumenthal osservava : “Dal capodanno, un drappello osannante Israele ha trasformato le pagine di opinione dei maggiori quotidiani usamericani in uno spazio personale dei più violenti e rumorosi. Di tutti i contributi editoriali pubblicati dal Washington Post, Wall Street Journal, e New York Times, da quando Israele ha iniziato la guerra contro Gaza, . . . solo uno ha offerto uno scettico punto di vista sull’aggressione.”
La concezione del New York Times di editoriali… equilibrati veniva conseguita giustappunto mediante le fantasie di Jeffrey Goldberg sul male non redimibile di Hamas e con le raccomandazioni di Thomas Friedman per Israele ad infliggere “pesanti sofferenze alla popolazione di Gaza.”
Il suo rivale cittadino, il New York Daily News, pubblicava un editoriale di apertura del Rabbino Marvin Hier che incalzava i leader mondiali a “non. . . ricostruire più Gaza ” anche se “molti civili soffriranno ”, dato che “i terroristi e coloro che li appoggiano non hanno diritto a ricevere aiuti importanti per la loro crudeltà, per i loro misfatti e per la loro omertà.” E questo è il fondatore e decano del Centro Simon Wiesenthal e del suo Museo della Tolleranza!
Nel bel mezzo di questa atmosfera da linciaggio anche organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch, riservavano per Hamas la loro più forte condanna.
Nonostante questa elite riversasse torrenti di veleno, i sondaggi dell’opinione pubblica mostravano che, pur con dure critiche ad Hamas, solo circa il 40% degli USAmericani approvavano l’attacco di Israele, mentre fra coloro che votavano Democratico (il partito di affiliazione di molti Ebrei) il consenso crollava al 30%.
In una teatrale esibizione di indipendenza, che richiamava alla mente Jimmy Carter come autore di Palestine Peace Not Apartheid, l’icona liberal Bill Moyers stigmatizzava Israele sul suo popolare programma di questioni pubbliche Bill Moyers Journal, quantunque in un contesto assai critico nei confronti di Hamas: “Uccidendo indiscriminatamente vecchi, bambini, intere famiglie, distruggendo scuole ed ospedali, Israele ha fatto esattamente ciò che fanno i terroristi.”
Come Carter, anche Moyers immediatamente finì sotto il tiro di Abraham H. Foxman, che lo accusava di “razzismo, revisionismo storico ed indifferenza al terrorismo,” e del professore di diritto ad Harvard Alan M. Dershowitz, che screditava Moyers per “la sua falsa moralistica equidistanza ” fra il terrorismo di Hamas e l’esercito di Israele, che “inavvertitamente aveva ammazzato qualche civile palestinese che era stato usato da Hamas come scudo umano.”
Ma ancora come Carter, Moyers riusciva a guadagnare terreno, visto che altri liberal si erano levati in sua difesa, e ad uscire illeso dopo la raffica di diffamazioni.

Quando si scatenò l’invasione di Gaza e le immagini sconvolgenti del massacro trasmesse dal vivo da Al-Jazeera non potevano più oltre essere ignorate, cominciarono a presentarsi crepe nel flusso delle informazioni dei media moderati.
Sotto il titolo inquietante “Si sta esaurendo il tempo di una soluzione a due Stati?” il notiziario televisivo più seguito negli Stati Uniti 60 Minutes mandava in onda un segmento di programma devastante sui coloni ebrei nella West Bank, che includeva scene strazianti di “Arabi che subivano l’occupazione delle loro abitazioni ” da parte di soldati israeliani.
La pagina editoriale di destra del Wall Street Journal pubblicava un articolo del professore di diritto George E. Bisharat dal titolo di testa “Israele sta commettendo crimini di guerra.”
Il giornalista del New York Times Roger Cohen, di solito tanto compassato, confessava in un paio di colonne di “vergognarsi per le azioni di Israele.” In un secondo articolo, Cohen considerava che “l’espansione continua di Israele mediante gli insediamenti, l’assedio a Gaza, la West Bank rinchiusa da muri e lo sfrenato ricorso alla forza ad alta tecnologia” era “progettata precisamente per colpire a randellate, indebolire e umiliare il popolo palestinese, fino a far svanire la sua dignità e il sogno di uno Stato palestinese.”
L’ex editore della New Republic e lo scrittore conservatore Andrew Sullivan giudicava che l’attacco israeliano era “tutt’altro che una esigenza moralmente stringente…Si tratta di una guerra decisamente unilaterale,” ed etichettava come “thugs” [N.d.tr. : i thugs erano membri di una setta religiosa indiana di strangolatori] i sodali con la destra ebraica per “il terribile massacro di uomini che ora veniva inflitto da Israele (e finanziato in parte dagli USAmericani).”
Philip Slater, autore dello studio sociologico The Pursuit of Loneliness, dichiarava: “La Striscia di Gaza è poco più di un grande campo di concentramento israeliano, in cui i Palestinesi vengono aggrediti a piacere, privati di cibo, carburante, energia, perfino privati di strutture ospedaliere…Diventerebbe difficile avere una qualche stima per loro, se non sparassero in risposta qualche razzo! ”
Intanto il Consiglio Comunale di Cambridge, Massachusetts, un enclave liberal e sede dell’Università di Harvard, adottava una risoluzione “che condannava gli attacchi e l’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano e il lancio di razzi contro la gente di Israele,” e un gruppo di professori universitari statunitensi lanciava una campagna nazionale che faceva appello al boicottaggio accademico e culturale di Israele.
Un sondaggio condotto fra Ebrei statunitensi riscontrava che il 47% approvava con forza l’aggressione israeliana, ma, in netto contrasto con la usuale solidarietà sempre e comunque, il 53% era o equidistante (il 44% approvava “solo un po’” o disapprovava “solo un po’”) o decisamente disapprovava (il 9%).
Osservatori di esperienza nel campo delle comunità ebraiche statunitensi sottolineavano un “cambio di marea dopo Gaza.”
A prescindere dai “settori più conservatori filo-israeliani delle comunità,” M. J. Rosenberg del Israel Policy Forum notava che “si faceva poca mostra di sostegno per questa guerra. A New York, una città in cui nel passato erano state fate marce di ‘solidarietà’ che avevano visto la partecipazione anche di 250.000 persone, solo 8.000 persone si erano recate a Manhattan per una dimostrazione della comunità in una domenica soleggiata.”
In pubblico contrasto con la leadership tradizionale ebraica, organizzazioni ebraiche di recente costituzione come J Street [N.d.tr. : un gruppo di pressione politica con l’obiettivo di rappresentare gli ebrei americani di sinistra] delimitavano un terreno di mediazione che “riconosceva che né gli Israeliani né i Palestinesi avevano il monopolio di essere nel giusto o nell’errore,” e raccomandavano “di liberare il Medio Oriente dall’approccio piuttosto limitato di noi-contro-loro.”
Costituito nel 2008, J Street si propone come controparte liberal dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). È ancora troppo presto per prevedere se J Street, che attualmente si uniforma ad una agenda politica vagamente progressista, sebbene si definisca anche “vicinissimo” a Kadima, il partito politico israeliano guidato da Tzipi Livni, si calcificherà in una “leale opposizione” o accentuerà il suo criticismo nei confronti della politica di Israele, quando la spaccatura che divide gli Ebrei statunitensi da Israele si allargherà.
Anche l’organizzazione “American Jews for a Just Peace” metteva in circolazione una petizione rivolta ai “Soldati Israeliani per Cessare i Crimini di Guerra,” e “Jews Say No” manifestava davanti all’Organizzazione Sionista Mondiale e agli uffici dell’Agenzia Ebraica, e “Jews against the Occupation” calavano uno striscione sull’autostrada nella West Side di New York City che affermava “Jews Say: End Israel’s War on Gaza NOW! – Gli Ebrei affermano: la Guerra di Israele contro Gaza deve finire ORA!
Negli ambienti intellettuali ebraici liberal, solamente alcuni perenni fautori di Israele, la maggior parte dei quali si erano imbarcati a destra dopo il giugno 1967, si sono avventurati a vele spiegate in difesa dell’invasione.
Era del tutto ovvio per il filosofo morale Michael Walzer che Israele avesse esaurito le opzioni non-violente prima dell’aggressione e che Hamas portasse la responsabilità per la morte di civili. Per Walzer la sola “difficile questione” consisteva nel fatto se Israele si fosse impegnato al massimo per ridurre il numero di queste vittime.
Era del tutto ovvio per Alan M. Dershowitz che Israele avesse fatto “tutti gli sforzi possibili per evitare l’uccisione dei civili” e che in questo non fosse riuscita perché Hamas aveva ricercato una stategia del tipo “bimbo morto”, vale a dire quella di costringere Israele ad ammazzare bambini palestinesi in modo da raccogliere le simpatie internazionali.
Era del tutto ovvio per l’editore di New Republic Martin Peretz che l’assedio di Gaza non risultasse così tanto spietato dal suo attento esame delle scarpe dei Palestinesi: “Bisogna guardare attentamente alle loro scarpe ‘sneakers’, visibilmente nuove e, senza dubbio, costose.”
Era del tutto ovvio per lo scrittore Paul Berman che, se una “possibilità” esiste per Hamas di minacciare di genocidio Israele in un giorno futuro, “se ad Hamas e ai suoi alleati e a coloro che la pensano nello stesso modo come Hezbollah viene permesso di prosperare senza alcun ostacolo, e se allo stesso modo viene concesso al governo dell’Iran e al suo programma nucleare di progredire,” allora Israele avrebbe il diritto di scatenare subito un attacco.
Dopo un tale ammasso di ipotetici affastellati di condizionali è difficile immaginare quale paese al mondo potrebbe dirsi al sicuro da un attacco proditorio e quale paese potrebbe non ricevere giustificazioni nel lanciare arbitrariamente un attacco.
Se, a prescindere da questa congrega di difensori di Israele, Ebrei liberal riconoscevano che l’attacco di Israele costituiva un problema di natura morale, cionondimeno non potevano sopportare che i loro panni sporchi venissero messi in piazza alla vista dei Gentili. Dunque, riviste e giornali di opinione destinati ad un pubblico di Ebrei dell’alta borghesia cittadina, come il New Yorker e il New York Review of Books, sorvolavano sul massacro di Gaza.
Comunque, un folto gruppo molto influente di intellettuali Ebrei, di dominio pubblico liberal, non sono stati in silenzio: la nuova generazione di bloggers ebraici liberal e collaboratori regolari con siti web liberal-democratici, come Salon.com e Huffington Post, meno dipendenti dalla classe dirigente, editori ebrei, inserzionisti, finanziatori e social networks, parlava da e per una generazione che ha raggiunto la maggiore età quando in larga misura la mitologia sionista è stata espulsa e sostituita da equilibrate ricerche storiche.La classe dirigente politica di Israele è andata evolvendo con modalità reazionarie e squallide. La documentazione sui diritti umani in Israele è stata sottoposta ad inchieste laceranti da parte delle organizzazioni sociali per i diritti umani.
La paranoia Olocausto-indotta e lo spaccio di accuse di anti-Semitismo tangibilmente contrastano con la quotidiana realtà di una assimilazione ebraica ovunque trionfante, dalla Ivy League [N.d.tr.: lega delle otto principali università del nord-est degli Stati Uniti] a Wall Street, da Hollywood a Washington, dai circoli d’élite all’altare del matrimonio.
Professionalmente, mentalmente ed emozionalmente emancipati dai ceppi del passato, questi Ebrei frequentatori assidui di Internet sono passati all’offensiva denunciando l’invasione di Gaza dal suo inizio.
Il simbolismo potrebbe a mala pena essere evitato. Mentre i sostenitori di Israele, che non si danno mai per vinti, come Walzer, Dershowitz, e Peretz sono stati abbarbicati fin dalla loro gioventù alla barca sionista, la generazione di giovani intellettuali noti ebrei che ora si presentano su Internet ne sono saltati fuori. “Li compatisco per il loro odio nei confronti del loro retaggio,” Peretz ha sibilato. “Sono solo strida fastidiose.”

Ecco le strida fastidiose nelle loro parole!
Ezra Klein (età 25 anni; blogger per American Prospect) nel secondo giorno dell’invasione così diffondeva: “Il lancio di razzi risulta senza dubbio ‘profondamente disturbante’ per gli Israeliani. Ma hanno fatto traboccare il vaso i tanti checkpoints, le strade chiuse o riservate, la limitazione dei movimenti, la terribile disoccupazione, l’oppressione inflessibile, le umiliazioni quotidiane, gli insediamenti illegali - ah, scusate! ‘avamposti’ – costruzioni ‘profondamente disturbanti’ per i Palestinesi, e decisamente molto più lesive ed oltraggiose. E i 300 morti Palestinesi dovrebbero creare qualche disturbo anche a noi tutti!”
Adam Horowitz (età 35 anni; blogger per Mondoweiss) nel quarto giorno dell’invasione, in risposta ad un editoriale di Benny Morris in prima pagina del New York Times, diffondeva: “Evidentemente, lei vede solo le reazioni e non le cause. Lei elenca le reazioni ad Israele e alla colonizzazione ebraica della Palestina storica portata avanti da Israele senza citare l’elefante nella stanza, che le mura che avviluppano Israele sono del tutto auto-prodotte.”
Matthew Yglesias (età 28 anni; blogger per Think Progress) nel sesto giono dell’invasione diffondeva: “Mentre Israele dichiarava il desiderio di abbandonare i Palestinesi di Gaza nella loro enclave minuscola, sovrappopolata, economicamente non vitale, il ‘disimpegno’ del 2005 da Gaza non ha mai comportato il permesso ai Palestinesi di controllare i confini o di esercitare la piena sovranità su questa loro area. Il progetto fondamentalmente prospettava che, se i Palestinesi cessavano le violenze contro Israele, allora la Striscia di Gaza avrebbe avuto un tarttamento simile a quello di una riserva indiana.”
Dana Goldstein (età 24 anni; blogger per American Prospect) nel dodicesimo giorno dell’invasione diffondeva: “Io voglio credere che l’esperienza storica, collettiva dell’Ebraismo e del Sionismo produca qualcosa di meglio, qualcosa di più umano, di ciò per cui siamo stati testimoni in Medio Oriente in questa ultima settimana.”
Glenn Greenwald (età 42 anni; blogger per Salon.com) nel tredicesimo giorno dell’invasione diffondeva: “Questa non più dirsi una guerra, questo è un massacro unilaterale senza pari,” e il
30 gennaio 2009, “Proprio non è possibile compiere effettivi progressi nelle intenzioni domestiche di rinvigorire la Costituzione e di revocare le nostre espansioni militari e di intelligence, se allo stesso tempo siamo impotenti e ciecamente sosteniamo Israele nelle sue varie guerre (e di conseguenza trasciniamo anche noi stessi in queste guerre).”
Il 20 febbraio 2009 Greenwald rispondeva ad una insinuazione mossagli da Jeffrey Goldberg di essere un “picchiatore contro Israele che odia gli Ebrei”: “la gente come Jeffrey Goldberg . . . ha così tanto abusato, manipolato e sfruttato le accuse di ‘anti-Semitismo’ e di ‘anti-Israele’ per fini scorretti e scopertamente politici che questi termini si sono svuotati di significato, hanno perso quasi del tutto il loro stimolo e di fatto sono diventati così banali da assumere caratteristiche caricaturali…Infatti, gente come Goldberg è diventata extra rancida e sprezzante nella sua retorica, precisamente perché sa che questi espedienti retorici hanno cessato di funzionare.” “Vi è un deciso cambio di marea quando la politica usamericana discute di Israele,” concludeva Greenwald, “Queste persone non possiedono più la capacità di soffocare il dissenso tramite tattiche di criminale intimidazione e sanno che è per questo che ora non possono fare altro che alzare il volume dei loro attacchi insultanti. La devastazione di Gaza da parte di Israele, con l’uso di bombe, armamenti, denaro e copertura diplomatica statunitense, e l’intrappolamento della popolazione civile di Gaza priva di difese sono così brutali ed orrende da guardare che era inevitabile un cambiamento del punto di vista della gente sul conflitto in Medio Oriente.”
Subito dopo la fine dell’invasione di Gaza, la falange dei blogger liberal ebrei ancora una volta ha reso pan per focaccia alla lobby israeliana quando questa ha cercato di bloccare la nomina da parte dell’amministrazione Obama di Chas Freeman, un funzionario critico nei confronti della politica di Israele.
Un altro indizio decisamente eclatante è stato uno sketch dal titolo “Strip Maul – Colpi di maglio sulla Striscia” mandato in onda su Daily Show di Comedy Channel, il 5 gennaio 2009. Il conduttore del programma televisivo, il comico Jon Stewart, è ebreo ed ha un enorme seguito fra i giovani. Egli metteva in ridicolo l’appoggio unanime, instupidito e dominato da stereotipi, dei politici verso Israele, ricevendo boati di approvazione dal pubblico in studio (“Questo è il nastro di Möbius dei problemi in discussione – esiste solo un’unica parte!”); [N.d.tr.: il nastro di Möbius, dal nome del matematico tedesco August Ferdinand Möbius, è un esempio di superficie non orientabile. Le superfici ordinarie, intese come le superfici che nella vita quotidiana siamo abituati ad osservare, hanno sempre due "lati" (o meglio, facce), per cui è sempre possibile percorrere idealmente uno dei due lati senza mai raggiungere il secondo, salvo attraversando una possibile linea di demarcazione costituita da uno spigolo (chiamata "bordo"). Per queste superfici è possibile stabilire convenzionalmente un lato "superiore" o "inferiore", oppure "interno" o "esterno". Nel caso del nastro di Möbius, invece, tale principio viene a mancare: esiste un solo lato e un solo bordo.]; rivolgeva l’attenzione verso “la segmentazione e l’assedio di Gaza che schiacciavano le persone”; e paragonava la situazione di un Palestinese a quella di qualcuno costretto “a vivere nel mio corridoio di ingresso e obbligato a passare attraverso posti di controllo ogni volta che deve prendere un s**t. (Una qualsiasi cosa in qualche altra parte della casa) ”
La metamorfosi generazionale che ha riguardato Israele si è resa molto più evidente nei campus universitari.
Inside Higher Ed riportava in un articolo: “In molti campus è stato riscontrato un deciso slittamento verso un più evidente sentimento filo palestinese e anti-Israele, causato, in parte, dall’aggressione bellica a Gaza di questo inverno.”
Ampie sale per conferenze di collegi universitari traboccavano di partecipanti alle assemblee che condannavano il massacro a Gaza. Mentre i gruppi “filo” israeliani, che di solito erano usi protestare dentro e fuori le conferenze, ora praticamente non si erano fatti vedere.
Gli studenti della Cornell University delineavano dei tracciati con 1.300 bandiere nere in commemorazione dei morti di Gaza. (Più tardi, l’esposizione veniva distrutta da un atto vandalico).
Gli studenti dell’Università di Rochester, dell’Università del Massachusetts, della New York University, della Columbia University, dell’Haverford College, del Bryn Mawr College, e dell’Hampshire College organizzavano lanci di petizioni, proteste e sit-in per raccogliere contributi finanziari in favore di studenti palestinesi e per sostenere il disinvestimento dalle imprese di armamenti e dalle compagnie che facevano affari con gli insediamenti illegali di Israele. Gli studenti dell’Hampshire College esercitavano con successo pressioni sugli amministratori del college per disinvestire dalle corporation statunitensi che traevano direttamente vantaggi dall’occupazione.
Sebbene le organizzazioni filo-israeliane dichiarassero che “i campus dei college e delle università…erano diventati focolai di una nuova virulenta pressione di anti-Semitismo,” in molti campus a giocare un ruolo guida erano stati gli studenti ebrei attraverso i comitati locali di “Students for Justice in Palestine ” e giovani attivisti ebrei creativi ed impegnati in “Birthright Unplugged” e in “Anarchists Against the Wall”, a fianco di singoli personaggi come Anna Baltzer, autrice del saggio Witness in Palestine, che era andata scuola per scuola offrendo la sua personale testimonianza sugli orrori giornalieri che si rivelavano in Palestina.
I legami di solidarietà che sono andati ad instaurarsi tra giovani Ebrei e giovani Musulmani in opposizione all’occupazione – i gruppi animatori in molti campus erano costituiti da radicali ebrei laici e giovani donne musulmane osservanti – danno ragione alla speranza che una giusta pace duratura possa ora essere acquisita.
Dopo avere parlato del massacro di Gaza presso una università del Canada, gli organizzatori mi hanno offerto un distintivo che recava la scritta “I ♥ GAZA.” Ho appuntato il distintivo sul mio zainetto e mi sono diretto all’aeroporto. Quando stavo in coda per salire in aereo, un passeggero dietro di me mi sussurrò “Mi piace il suo distintivo.” Eh sì, ho pensato, i tempi stanno proprio cambiando. Un paio di ore più tardi chiedevo un bicchiere d’acqua all’assistente di volo. Porgendomi il bicchiere si chinava verso di me e anche lui mi sussurrava“Mi piace il suo distintivo.” Eh sì, ho pensato, qui sta succedendo veramente qualcosa!

venerdì 5 marzo 2010

Perché servono così tanti agenti del Mossad per assassinare con un cuscino un Palestinese?

di Gilad Atzmon. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala
Mentre in Gran Bretagna, Francia, USA ed Argentina il Mossad può godere localmente dell’appoggio di migliaia di Sayanim, ebrei che sono felici di tradire i loro vicini in favore del diletto Stato ebraico, quando agisce nei paesi arabi il Mossad deve tirarsi dietro i suoi tanti assassini e i loro assistenti, e li infiltra, usando differenti metodi fraudolenti.
Tuttavia, è fonte di meraviglia il fatto che ci siano voluti 26 agenti del Mossad per mettere in atto un singolo omicidio nei confronti di un inerme Palestinese combattente per la libertà, utilizzando un cuscino*. Tenterò di fare un po’ di luce su questa sconcertante questione.
Il Mossad non è proprio una comune agenzia di intelligence guidata da fastidiosi Gentili. In effetti è gestita da Eletti e la sua ragion d’essere è quella di servire lo Stato ebraico e il Progetto Nazionale ebraico.
Negli ultimi giorni abbiamo appreso che più di due dozzine di agenti del Mossad sono stati identificati, al momento, dalla polizia di Dubai. Per questo, ci si dovrebbe anche aspettare che in un collettivo di assassini ebrei tanto numeroso e variegato, operante in un paese arabo ostile, sia necessaria e riscontrabile la presenza di almeno un rabbino combattente, come custode delle disposizioni Kosher, che mantenga aperta una linea diretta con Dio e che tenga sempre vivo il vindice spirito ebraico!
Per quanto a Dubai il cibo sia rinomato per la sua sorprendente squisitezza, al momento non si trovano a disposizione in centro-città negozi di prodotti gastronomici kosher. Dunque, esiste anche la necessità di un esperto ebraicamente addestrato che sia in grado di acquistare opportunamente il pesce per il gefilte (polpette di carpa) e il pollo per la minestra. Inoltre, dovrebbe servire almeno uno chef che sappia come trasformare pollo e acqua in Potere Ebraico (minestra di pollo).
Noi dobbiamo sempre ricordare che, secondo il punto di vista ebraico, il cibo è di estrema importanza. Diversamente dagli animali, che uccidono solo quando hanno bisogno di mangiare o stanno percependo un pericolo incombente, gli Israeliani ammazzano anche per “motivazioni ulteriori” (democrazia, pluralismo, guerra “contro il terrorismo”, ecc.) e preferiscono farlo a stomaco pieno.
Fra interessi culinari e regolamenti dietetici kosher, abbiamo così assegnato i ruoli a 3 membri del team. Tuttavia, altri 23 potenziali assassini sono più che sufficienti per ammazzare una sola persona.
Ma esistono altri elementi da prendere in considerazione. Tenendo ben presenti le recenti rivelazioni rispetto all’instabilità mentale di alcuni membri del Mossad, è più che verosimile che uno psichiatra, un analista freudiano, un paramedico psichiatrico e un’infermiera risultino indispensabili per assistere gli eroi ebraici “prima e dopo” l’azione letale.
Certamente, questo riduce la nostra squadra a 19 potenziali assassini, giust’appunto!
Da quanto apprendiamo dalla stampa, 6 di questi agenti del Mossad erano donne. Questo dovrebbe comportare che qualche estetista ci vuole. Almeno un parrucchiere specializzato in “situazioni che fanno arricciare i capelli”.
Inoltre si rende necessario un consulente di Cosmesi Ebraica e qualcuno che si intenda di manicure e pedicure. Uno che sia in grado di trasformare l’unghia di una donna ebrea in una spada sionista letale (nel caso in cui nel guanciale tecnologico dovesse prodursi un qualche guasto). Avremo anche bisogno di uno specialista in parrucche, però che sappia trasformare un ragazzo di Tel Aviv in un giovinetto dell’Essex.
Questi “specialisti in bellezza G(iudaica)” riducono il nostro team di assassini a 17 componenti.
Ma non è ancora finita, stando a quanto appreso dalla stampa.
I nostri assassini del Mossad erano piuttosto appassionati di tennis. Chiaramente non avrebbero mai riposto la loro fiducia su un arbitro arabo o jihadista, quindi dovevano portarsi dietro il loro arbitro di fiducia. Probabilmente necessitavano di un arbitro di tennis israeliano kosher e di qualche atletico colono come raccattapalle. Supponiamo che abbiano assunto 2-3 raccattapalle e un arbitro: questo ridurrebbe il nostro team di potenziali assassini a soli 14 elementi.
A detta del Times, l’Olocausto gioca un ruolo di primo piano nella filosofia del Mossad. “Dobbiamo essere forti, usare il nostro cervello e difendere noi stessi in modo tale che l’Olocausto non abbia più a ripetersi”, afferma Meir Dagan, l’attuale capo del Mossad. Esattamente, il Mossad sta ammazzando nel nome del passato ebraico!
Ed è più che probabile che il Mossad abbia schleped, infiltrato a Dubai alcuni dei suoi più bravi sacerdoti dell’Olocausto, tali che ricordassero alle spie per quale motivo dovevano essere dei giustizieri e perché dovevano allontanarsi dall’umana famiglia. Tenendo conto della narrazione mitica sulla cifra del sei, è ragionevole presumere che il Mossad abbia inviato a Dubai almeno sei mentori in Olocausto, uno per ogni milione.

Tuttavia, com’è noto, l’Olocausto nazista è soltanto uno fra innumerevoli altri Giudeicidi.
“Mai perdonare, mai dimenticare”, questa è evidentemente la prospettiva del futuro ebraico.
Nel complesso, possiamo annoverare 9 o 10 sacerdoti ebrei del Giudeicidio, in modo da includere i pogrom in Europa orientale del 19° secolo, l’Inquisizione, Amalek e così via.
Questo dovrebbe restringe la nostra lista di potenziali killer a soli 5 membri.
Per quanto gli ebrei nazionalisti e i loro leader spirituali abbiano promesso solennemente di “non dimenticare mai” e di ricordare per sempre, vi sono in realtà alcune cose su cui insistono a passare sopra, a rimuovere o ad ignorare.
Per esempio, sembrano non riuscire ad afferrare l’effettivo significato della Missione di Inchiesta delle Nazioni Unite sul Conflitto di Gaza, nota anche come Rapporto Goldstone.
Gli ebrei insistono nel rigettare la lettura di Shlomo Sand, che interpreta la loro storia come un’accozzaglia di favole fantasmatiche di totale invenzione, ai limiti della totale assurdità.
Insistono ad evitare di prendere in considerazione il fatto che i dispacci di AIPAC (American Israel Public Affairs Committee, un gruppo di pressione americano noto per il forte supporto ad Israele), AJC (American Jewish Committee), ADL (Anti Defamation League), LFI (Labour Friends of Israel) e CFI (Catholics for Israel), tutti esercitano su di noi la loro pressione in favore di una ideologia razzista espansionista, il sionismo.
Con un Ministro per gli Affari Esteri britannico David Miliband iscritto nella lista dei propagandisti come “Promotore di Hasbara (propaganda) israeliana” e con i sionisti che predicano le guerre interventiste nei mezzi di informazione di massa, con Bernie Madoff che ci fa la lezione sulla tecnica Ponzi e con Alan Greenspan che ci ha procurato la  più grande catastrofe finanziaria di sempre, si crea l’assoluto bisogno di qualche specialista ebreo in grado di indottrinare gli agenti del Mossad in modo da ridurli nella cecità più completa e in una totale amnesia. Suppongo che con gente del calibro di Wolfowitz, Miliband, Goldstone, Abe Foxman, Greenspan, Madoff, Olmert, Livni, Sharon, Peres e tanti altri come costoro, ci vorranno ben più di 5 esperti per convincere la squadra di killer del Mossad che la causa ebraica sia realmente kosher.
Come si può ben vedere, abbiamo già messo nel conto almeno 26 indispensabili assistenti all’assassinio, senza mai citare un solo operatore-al-cuscino del Mossad. Come possiamo constatare, sono necessari ben più di 26 agenti del Mossad per ammazzare un Palestinese disarmato. Suppongo che nei prossimi giorni la polizia di Dubai esibirà molte altre foto di Israeliani in parrucca.
Devo ammettere che, con Israele in giro, la vita è sempre piena di sorprese. Che cosa mai faremo quando se ne sarà andato?
* Troverete il vostro cuscino ebraico cliccando qui.



Originale da: l'autore-Why it takes so many Mossad agents to kill a Palestinian with a Pillow?

Articolo originale pubblicato il 1-3-2010
L’autore

Gilad Atzmon è un autore associato a Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística, della quale Curzio Bettio fa parte. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

URL di questo articolo su Tlaxcala:
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giovedì 4 marzo 2010

La tecnica del “colpo di stato colorato”

di John LAUGHLAND. Tradotto e commentato da Curzio Bettio, Tlaxcala

La tecnica di un colpo di stato, a cui  più di recente si fa riferimento anche con “rivoluzione colorata”, trova riscontro delle sue origini in una ricca letteratura che ci fa risalire agli inizi del XX secolo. È stata applicata con successo dai neo-conservatori statunitensi per preparare il terreno a “cambiamenti di regime” in una serie di repubbliche dell’ex Unione Sovietica. Comunque, la tecnica ha avuto un effetto contrario a quello desiderato quando è stata tentata in ambienti culturali diversi (Venezuela, Libano, Iran).       
John Laughland, che per il Guardian  ha prodotto articoli su alcune di queste operazioni, accende una nuova luce su questo fenomeno.

Nel corso di questi ultimi anni, tutta una serie di “rivoluzioni” è esplosa in differenti parti del mondo.

Georgia
Nel novembre 2003, il presidente Edouard Chevardnadze è stato rovesciato in seguito a manifestazioni e ad asserzioni non comprovate di elezioni presidenziali truccate. 

Ucraina
Nel novembre 2004, manifestazioni – la cosiddetta “Rivoluzione arancione” – hanno avuto inizio nel momento in cui venivano formulate accuse consimili di elezioni truccate. Il risultato è stato che il paese ha perso il suo antico ruolo geopolitico di ponte fra l’Est e l’Occidente ed è stato sospinto verso un’adesione alla NATO e all’Unione Europea. Considerato che la Kievan Rus è stato il primo Stato russo e che l’Ucraina attualmente ha assunto una posizione contraria alla Russia, siamo in presenza di un avvenimento storico.
Tuttavia, come affermava George Bush, “voi siete sia con noi che contro di noi”. Benché l’Ucraina abbia inviato un contingente di truppe in Iraq, evidentemente è stata considerata ancora troppo amica di Mosca.

Libano
Poco dopo le dichiarazioni da parte degli Stati Uniti e dell’ONU che le truppe siriane dovevano ritirarsi dal Libano, e successivamente all’assassinio di Rafik Hariri, le manifestazioni di Beirut sono state presentate come la “Rivoluzione dei Cedri”. Un’enorme contro-manifestazione di Hezbollah, il più importante partito filo-siriano, passava sotto silenzio nello stesso momento in cui la televisione mostrava senza fine la folla anti-siriana.
Esempio particolarmente eclatante di malafede orwelliana, la BBC spiegava ai telespettatori che “Hezbollah, il più grande partito politico del Libano, è fino a questo momento la sola voce dissidente che sostiene la permanenza dei Siriani nel Libano.”
Com’è possibile che la maggioranza popolare possa essere una “voce dissidente”? [1]

Kirgizistan
Dopo le “rivoluzioni georgiana ed ucraina”, numerosi sono coloro che predicevano che l’ondata di “rivoluzioni” si sarebbe abbattuta sulle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. E questo è quello che è avvenuto.
I commentatori sono sembrati divisi sulla questione di sapere quale colore attribuire all’insurrezione di Bichkek: rivoluzione “dei limoni” o dei “tulipani”? Non sono riusciti a mettersi d’accordo.
Ma erano sicuramente d’accordo su un punto: queste rivoluzioni sono “fredde”, anche se sono violente. Infatti, il presidente del paese, Askar Akaïev, è stato rovesciato il 24 marzo 2005 e i contestatori hanno preso d’assalto il palazzo presidenziale e lo hanno saccheggiato. 

Uzbekistan
Quando ribelli armati si impadronirono di edifici governativi, liberarono dei prigionieri e presero ostaggi nella notte fra il 12 e il 13 maggio 2005 nella città uzbeka di Andijan (situata nella valle di Ferghana dove i torbidi si erano innescati parimenti per il vicino Kirgizistan), la polizia e l’esercito accerchiarono i ribelli e ne risultò uno stallo che procedette per lungo tempo. Vennero condotti negoziati con i ribelli, i quali non cessavano mai di rincarare le loro rivendicazioni. 
Quando le forze governative li attaccarono, i combattimenti produssero qualcosa come 160 morti, di cui 30 fra le forze di polizia e dell’esercito.
Nondimeno, i media occidentali immediatamente presentarono in maniera distorta questi scontri violenti, pretendendo che le forze governative avessero aperto il fuoco su dei contestatari disarmati, sul “popolo”.
Questo mito, che si ripete senza posa, della rivolta popolare contro un governo dittatoriale è accettato a destra come a sinistra dello schieramento politico. 

Una volta, il mito della rivoluzione era manifestamente riservato alla sinistra, ma quando il putsch violento ha avuto luogo nel Kirgizistan, il Times si è tanto entusiasmato a proposito delle scene di Bichkek, che ricordavano all’articolista i film di Eisenstein sulla rivoluzione bolscevica; il Daily Telegraph esaltava la “presa del potere da parte del popolo” e il Financial Times faceva ricorso ad una metafora maoista ben conosciuta quando vantava la “lunga marcia del Kirgizistan verso la libertà”.  

Una delle idee chiave che stanno alla base di questo mito è naturalmente quella che il “popolo” appoggia questi avvenimenti e che questi ultimi sono spontanei. In realtà, sicuramente, queste sono operazioni ben concertate, spesso messe in scena tramite i mezzi di comunicazione, e, di abitudine, create e controllate da reti transnazionali di organizzazioni non governative, che sono strumenti del potere dell’Occidente. 

La letteratura sui colpi di Stato
Il mito della rivoluzione popolare spontanea perde la sua pregnanza in considerazione della vasta letteratura sui colpi di Stato e sulle principali tattiche utilizzate per provocarli.
Ben inteso, è stato Lenin a sviluppare la struttura organizzativa dedicata al rovesciamento di un regime, struttura che attualmente ci è nota sotto il nome di partito politico.
Lenin differisce da Marx per il fatto che non pensava che il cambiamento storico avvenisse come risultato di forze anonime ineluttabili. Lenin pensava che era necessario provocare il cambiamento.   

Ma è stato probabilmente Curzio Malaparte che per primo, nel suo Tecnica del colpo di Stato, ha dato una forma celebre a queste idee [2].

Pubblicato nel 1931, questo libro presenta il ribaltamento di regime come una procedura tecnica. Malaparte era in disaccordo con coloro che pensavano che i cambiamenti di regime avvenivano spontaneamente.
Egli inizia il suo libro riportando una discussione fra diplomatici a Varsavia nella primavera del 1920.
La Polonia era stata invasa dall’armata rossa di Trotskij, (comunque la Polonia aveva invaso l’Unione Sovietica occupando  Kiev nell’aprile 1920), e i bolscevichi erano alle porte di Varsavia.

La discussione aveva luogo fra il ministro della Gran Bretagna, Sir Horace Rumbold, e il Nunzio papale, Monsignor Ambrogio Damiano Achille Ratti (che due anni più tardi sarebbe divenuto Papa con il nome di Pio XI).
L’Inglese affermava che la situazione politica interna alla Polonia era così caotica che era inevitabile una rivoluzione e che il corpo diplomatico doveva abbandonare la capitale e rifugiarsi a Poznan. Il Nunzio non era d’accordo, insistendo sul fatto che una rivoluzione era senza dubbio possibile in un paese civilizzato come l’Inghilterra, l’Olanda o la Svizzera e non in un paese in preda all’anarchia. Naturalmente, l’Inglese era sconvolto all’idea che una rivoluzione potesse scoppiare in Inghilterra. “Mai!” sbottò.

I fatti gli hanno dato torto, visto che in Polonia non è scoppiata alcuna rivoluzione e questo, secondo Malaparte, perché le forze rivoluzionarie non erano sufficientemente ben organizzate.  Questo aneddoto permette a Malaparte di accostarsi alle differenze tra Lenin e Trotskij, due esperti in colpo di Stato. Egli sottolinea come il futuro Papa avesse ragione e che era sbagliato affermare essere necessarie certe condizioni perché avvenga la rivoluzione. 
Per Malaparte, come per Trotskij, è possibile provocare un cambiamento di regime non importa in quale paese, anche nelle democrazie stabili dell’Europa occidentale, a condizione che vi sia un gruppo di uomini sufficientemente determinati ad effettuarlo.

Fabbricare il consenso
Questo ci porta a fare riferimento ad altri testi relativi alla manipolazione mediatica.
Lo stesso Malaparte non affronta questo aspetto, che però a) risulta decisamente importante e b) costituisce un elemento della procedura tecnica utilizzata per i cambiamenti di regime, anche al giorno d’oggi.  

A dire il vero, il controllo dei media durante un capovolgimento di regime è così importante che una delle caratteristiche di queste rivoluzioni consiste nella costruzione di una realtà virtuale. Il controllo di questa realtà è esso stesso uno strumento di potere, tanto che al momento dei colpi di Stato classici nelle “repubbliche delle banane”, la prima cosa di cui si impadronivano i rivoluzionari era la radio.
Attualmente, le persone provano ancora una forte ripugnanza ad accettare l’idea che gli avvenimenti politici siano deliberatamente manipolati.

Questa stessa ripugnanza è un prodotto dell’ideologia dell’informazione, che lusinga la vanità delle persone e le induce a credere di avere accesso ad una somma considerevole di informazioni.
In effetti, l’apparente diversificazione di informazioni derivate dai media moderni nasconde una estrema povertà delle fonti originali, nella stessa maniera in cui una strada piena zeppa di ristoranti su una spiaggia della Grecia può nascondere la realtà di un’unica cucina nel retrostante.

Le informazioni sugli avvenimenti importanti provengono spesso da un’unica fonte, quasi sempre da un’agenzia di stampa, e anche coloro deputati alla diffusione delle informazioni, come la BBC, si accontentano di riciclare le informazioni ricevute da queste agenzie, comunque presentandole come farina del loro sacco.

I corrispondenti della BBC spesso stanno nelle loro camere di albergo quando spediscono i loro dispacci, leggendo per gli studi di Londra le informazioni che sono state loro trasmesse da colleghi in Inghilterra, che a loro volta le hanno ricevute da agenzie di stampa. 

Un secondo fattore che spiega la ripugnanza a credere alla manipolazione dei media è legato al sentimento di onniscienza che la nostra epoca di mezzi di comunicazione di massa ama assecondare: criticare le informazioni della stampa è come dire alle persone che sono credulone, e questo messaggio non è gradevole da ricevere.

La manipolazione mediatica ha molteplici aspetti. Uno dei più importanti è l’iconografia politica. Questa è uno strumento molto importante utilizzato per difendere la legittimità dei regimi che hanno preso il potere attraverso una rivoluzione. Basti pensare ad avvenimenti emblematici, come la presa della Bastiglia del 14 luglio 1789, l’assalto al Palazzo d’Inverno durante la rivoluzione dell’ottobre 1917, o la marcia su Roma di Mussolini del 1922, per rendersi conto che certi avvenimenti possono essere elevati al rango di fonti pressoché eterne di legittimità. 

Ciononostante, l’importanza della costruzione politica di immagini va ben al di là dell’invenzione di un emblema specifico per ciascuna rivoluzione. Essa implica un controllo molto più rigoroso dei mezzi di informazione e generalmente questo controllo deve essere esercitato su un lungo periodo, non solamente al momento del cambiamento di regime.

Risulta veramente essenziale che la linea del partito venga ripetuta ad nauseam.
Un aspetto della cultura mediatica di questo periodo, che numerosi dissidenti denunciano alla leggera, è che le opinioni degli oppositori possono venire espresse ed anche pubblicate, ma questo avviene precisamente perché, non rappresentando solo che gocce d’acqua in un oceano, queste non rappresentano mai una minaccia per la marea propagandistica. 

Willi Münzenberg
Uno dei maestri moderni del controllo dei mezzi di comunicazione è stato il comunista tedesco, da cui Goebbels ha appreso il suo mestiere, Willi Münzenberg.
Münzenberg non è stato solamente l’inventore della manipolazione, ma anche il primo ad avere messo a punto l’arte di creare una rete di giornalisti formatori di opinioni, per diffondere le idee funzionali alle necessità del Partito comunista tedesco e dell’Unione Sovietica. Con ciò, fece una fortuna edificando un vasto impero mediatico.

Münzenberg  è stato coinvolto nel progetto comunista fin dall’inizio. Apparteneva al circolo ristretto dei compagni di Lenin a Zurigo e nel 1917 accompagnò il futuro capo della rivoluzione bolscevica dalla stazione centrale di Zurigo alla stazione di Finlandia a San Pietroburgo in un treno piombato, con l’aiuto delle autorità imperiali germaniche.

Lenin richiese a Münzenberg di combattere la pubblicità deleteria suscitata dalla situazione di emergenza spaventosa del 1921, che sconvolgeva lo Stato sovietico di recente instaurato, per cui 25 milioni di contadini della regione del Volga rischiavano di morire di fame.

Münzenberg, che allora era rientrato a Berlino, dove in seguito veniva eletto come deputato comunista al Reichstag, fu incaricato di creare una organizzazione di soccorso operaio, il  Foreign Committee for the Organisation of Worker Relief for the Hungry in Soviet Russia – Comitato Estero per l’organizzazione del Soccorso Operaio contro la fame nella Russia Sovietica, il cui obiettivo era quello di far credere che i soccorsi umanitari provenivano da fonti diverse dalla Herbert Hoover’s American Relief Administration – Amministrazione di Herbert Hoover del Soccorso Americano.

Lenin temeva non solamente che Hoover utilizzasse il suo progetto umanitario per inviare spie nell’URSS, (cosa che effettivamente avvenne), ma ugualmente – fattore forse più importante – che il primo Stato comunista al mondo non dovesse soffrire fatalmente della pubblicità negativa dovuta al fatto che l’America capitalista gli veniva in aiuto a qualche anno dalla Rivoluzione.

Münzenberg, dopo avere ottenuto un grande successo nella raccolta di fondi e cibo per le vittime della carestia russa, rivolse la sua attenzione verso attività di propaganda più generali. 
Innalzò un vasto impero mediatico, conosciuto sotto il nome di “Trust Münzenberg”, che possedeva due quotidiani a larga diffusione in Germania, una rivista settimanale di massa e aveva interessi in altre pubblicazioni nel mondo.

Si mise in luce in modo particolare nel mobilitare l’opinione pubblica mondiale contro l’America  in occasione del processo a carico di Sacco e Vanzetti (i due immigrati italiani anarchici condannati a morte innocenti per omicidio nel Massachusetts nel 1921) e nel contrastare l’idea propagandata dai nazisti secondo cui l’incendio del Parlamento tedesco, il Reichstag, nel 1933, fosse opera di un complotto comunista. Ricordiamo che i nazisti presero come pretesto questo incendio per procedere ad arresti e ad esecuzioni in massa di comunisti. (Attualmente si pensa che il fuoco sia stato appiccato in realtà a titolo individuale dall’uomo che fu immediatamente arrestato nell’edificio, un piromane di nome Martinus van der Lubbe).

Münzenberg riuscì a convincere una parte importante dell’opinione pubblica attraverso una menzogna opposta a quella dei nazisti, vale a dire che quelli che avevano dato fuoco erano gli stessi nazisti che cercavano un pretesto per sbarazzarsi dei loro principali avversari.

Il fatto più importante per la nostra epoca è che Münzenberg comprese bene come sia importante influenzare i facitori di opinioni.

Egli prendeva essenzialmente come obiettivo gli intellettuali, partendo dall’idea che erano i più facili da influenzare in ragione della loro grande vanità. In modo particolare, aveva contatti con un gran numero di personalità del mondo letterario degli anni Trenta. Münzenberg ne incoraggiò molti a sostenere i Repubblicani durante la guerra civile spagnola e a fare di questa lotta una causa celebre dell’antifascismo comunista.

Attualmente, la tattica di Münzenberg riveste una grande importanza nella manipolazione dell’opinione pubblica in favore del Nuovo Ordine Mondiale.
Più che mai, “esperti” fanno la loro comparsa sui nostri piccoli schermi per delucidarci sugli avvenimenti e costoro sono sempre veicoli della linea ufficiale di qualche partito o fazione. Essi vengono tenuti sotto controllo con modalità differenti, generalmente con il denaro o con lusinghe. 

Psicologia della manipolazione dell’opinione pubblica 
Esiste tutta una serie di opere che puntano il dito su un aspetto un po’ differente dalla tecnica specifica messa a punto da Münzenberg. Si tratta delle modalità con cui si inducono le persone ad agire collettivamente, ricorrendo a stimoli di natura psicologica. 

Potrebbe essere che il primo teorico importante in questa materia sia stato il nipote di Freud, Edward Bernays, che scriveva nella sua opera Propaganda, apparsa nel 1928, come fosse del tutto naturale e giustificato che i governi plasmassero la pubblica opinione per fini politici [3].

Il primo capitolo porta il titolo rivelatore seguente: “Organizzare il caos”.

Per Bernays, la manipolazione consapevole ed intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse è un elemento importante delle società democratiche.

Coloro che manipolano i meccanismi segreti della società costituiscono un governo invisibile, che rappresenta il potere effettivo. Noi siamo eterodiretti, i nostri pensieri sono condizionati, i nostri gusti sono costruiti ad arte, le nostre idee sono suggerite essenzialmente da uomini di cui noi non abbiamo mai inteso parlare. È la conseguenza logica della maniera in cui la nostra società democratica è strutturata.

Un grande numero di esseri umani devono cooperare per potere vivere insieme in una società che funzioni bene. In quasi tutti gli atti della nostra vita quotidiana, che si tratti della sfera politica, di affari, dei nostri comportamenti sociali o delle nostre concezioni etiche, noi siamo dominati da un numero relativamente ridotto di persone che conoscono i processi mentali e le caratteristiche sociali delle masse. Sono queste persone che controllano la pubblica opinione.

Per Bernays, molto spesso questi membri del governo invisibile non conoscono essi stessi chi sono gli altri membri. La propaganda è il solo mezzo per impedire all’opinione pubblica di sprofondare nel caos.
 
Bernays ha continuato a lavorare su questo argomento dopo la guerra  e nel 1947 ha pubblicato The Engineering of Consent – La costruzione del consenso [4], titolo al quale Edward Herman e Noam Chomsky hanno fatto riferimento quando hanno pubblicato nel 1988 la loro opera importantissima La fabrique du consentement  [5].

Il rapporto con Freud è decisivo in quanto, come andremo ad esaminare, la psicologia è uno strumento capitale per influenzare l’opinione pubblica.

Secondo due degli autori che hanno collaborato a La fabrique du consentement, Doris E. Fleischmann e Howard Walden Cutler, ogni leader politico deve fare appello alle emozioni umane primarie al fine di manipolare le opinioni.

L’istinto di conservazione, l’ambizione, l’orgoglio, la bramosia, l’amore per la famiglia e per i bambini, il patriottismo, lo spirito di imitazione, il desiderio di comando, il gusto dell’azione, così come altri bisogni, sono le materie brute psicologiche che ciascun leader deve prendere in considerazione nei suoi tentativi per conquistare l’opinione pubblica alle sue idee.

Per mantenere la fiducia nei leader, la maggior parte delle persone hanno necessità di essere sicuri che tutto quello in cui credono sia corrispondente al vero. 

Questo era quello che Münzenberg aveva ben compreso: il bisogno fondamentale degli uomini di credere in ciò che essi vogliono credere. Thomas Mann faceva allusione a questo fenomeno quando attribuiva l’ascesa di Hitler al desiderio collettivo del popolo tedesco di credere ad un “racconto di fate” che dissimulava la squallida realtà.

Su questo argomento, meritano di essere citate altre opere che non trattano per ragioni temporali della propaganda elettronica moderna ma che si rivolgono piuttosto verso la psicologia delle masse.  Pensiamo ai classici come la Psychologie des foules – Psicologia delle masse di Gustave Le Bon (1895) [6], Masse und Macht – Massa e potere d’Elias Canetti (1960) [7] e Le viol des foules par la propagande politique – Lo stupro delle folle da parte della propaganda politica di Serge Tchakhotine (1939) [8].

Tutte queste opere fanno abbondante riferimento alla psicologia e all’antropologia. Non bisogna dimenticare l’opera grandiosa dell’antropologo  René Girard, i cui scritti sulla logica dell’imitazione (mimesis) e sulle azioni violente collettive sono eccellenti strumenti per comprendere perché l’opinione pubblica può tanto facilmente essere indotta a sostenere la guerra e altre forme di violenza politica.

Tecnica della formazione dell’opinione pubblica
Dopo la guerra, numerosissime tecniche messe a punto dal comunista Münzenberg furono adottate dagli Stati Uniti, come dimostrato in modo magnifico dall’eccellente lavoro di Frances Stonor Saunders, Qui mène la danse ? La CIA et la Guerre froide culturelle – Chi conduce la danza? La CIA e la Guerra fredda culturale [9].

Saunders spiega in maniera estremamente dettagliata come, all’inizio della Guerra fredda, gli Statunitensi e i Britannici dettero inizio ad una importante operazione clandestina destinata a finanziare intellettuali anti-comunisti. [10].

L’elemento fondamentale è che essi concentrarono la loro attenzione su alcune personalità della sinistra, soprattutto su trotskisti che non avevano mai smesso di sostenere l’Unione Sovietica, se non nel 1939 quando Stalin firmò il Patto di non-aggressione con Hitler, e che avevano spesso collaborato in precedenza con Münzenberg.

Un gran numero di queste persone, che si situavano al punto di congiunzione fra il comunismo e la CIA all’inizio della Guerra fredda, sono divenuti dei neo-conservatori di primo piano, in particolare Irving Kristol, James Burnham, Sidney Hook e Lionel Trilling [11].

Le origini di sinistra, per meglio dire trotskiste, del neo-conservatorismo sono conosciute, anche se continuo ad essere sorpreso da nuovi particolari che vado scoprendo, ad esempio che Lionel e Diana Trilling sono stati sposati da un rabbino che considerava Felix Dzerjinski, fondatore della polizia segreta bolscevica, la Čeka ( antenata del KGB), il controaltare comunista della polizia politica di Himmler, come un modello di eroismo.

Queste origini di sinistra mantengono una relazione particolare con le operazioni clandestine evocate da Saunders, visto che l’obiettivo della CIA era precisamente quello di influenzare gli oppositori di sinistra al comunismo, vale a dire i trotskisti. Molto semplicemente, l’idea della CIA era che gli anti-comunisti di destra non avevano alcun bisogno di essere influenzati ed ancor meno di venire pagati.

Stonor Saunders cita Michael Warner quando scrive:
“Per la CIA la strategia di sostenere la sinistra anti-comunista doveva diventare il fondamento teorico delle operazioni politiche della CIA contro il comunismo nel corso dei due decenni successivi.”
Questa strategia veniva descritta in The Vital Center : The Politics of Freedom di Arthur Schlesinger (1949) [12], opera che costituisce una delle pietre angolari di quello che più tardi divenne il movimento neo-conservatore.

Stonor Saunders scrive:
“L’obiettivo di sostenere gruppi di sinistra, non era né di distruggere né di dominare questi gruppi, ma piuttosto di mantenere con loro una discreta prossimità e di dirigere il loro pensiero, di procurare loro un modo per liberarsi dalle inibizioni inconscie e, al limite, di opporsi alle loro azioni nel caso in cui fossero diventati eccessivamente… radicali.” 

Le modalità attraverso cui questa influenza di sinistra fece sentire i propri effetti furono molteplici e variegate.
Gli Stati Uniti erano decisi a fornire di se stessi un’immagine progressista, che contrastasse con quella di una Unione Sovietica “reazionaria”. In altre parole, volevano mettere in attuazione le stesse cose che facevano i Sovietici.

Ad esempio, negli ambienti musicali statunitensi, Nicolas Nabokov (il cugino dell’autore di Lolita) era uno dei principali esponenti del Congresso per la libertà della Cultura.

Nel 1954, la CIA aveva finanziato un festival della musica a Roma nel corso del quale l’amore “autoritario” di Stalin per compositori russi come Rimski-Korsakov e Tchaïkovski veniva “contrato” dalla musica moderna non ortodossa ispirata dal dodecafonismo di Schoenberg. Per Nabokov, promuovere una musica che eliminava in modo eclatante le gerarchie naturali, era lanciare un chiaro messaggio politico.

Un altro progressista, il pittore Jackson Pollock, ex comunista, fu allo stesso modo sostenuto dalla CIA. I suoi “imbrattamenti” venivano considerati rappresentare l’ideologia americana di “libertà” opposta all’autoritarismo della pittura del realismo socialista.

(Questa alleanza con i comunisti aveva preceduto la Guerra fredda: il pittore di affreschi messicano comunista Diego Rivera venne patrocinato da Abby Aldrich Rockefeller ma la loro collaborazione ebbe bruscamente termine quando Rivera si rifiutò di ritirare un ritratto di Lenin da una scena di massa dipinta sui muri del Rockefeller Center nel 1933.)



   
Jackson Pollock                                                                              Diego Rivera

Questa commistione fra la cultura e la politica venne incoraggiata apertamente da un organismo della CIA che portava un nome molto orwelliano, l’Ufficio di Strategia Psicologica, PSB. 

Nel 1956, questa organizzazione sostenne una tournée europea della Metropolitan Opera (Met), che aveva lo scopo politico di incoraggiare il multiculturalismo.

L’organizzatore, Junkie Fleischmann, affermava:
“Noi, negli Stati Uniti, siamo un melting-pot e con questo dimostriamo che i popoli possono intendersi indipendentemente dalla razza, dal colore della pelle o dalla loro confessione.
Utilizzando il termine melting-pot, o una qualsiasi altra espressione, noi potremo presentare il Met come un esempio per cui gli Europei immigrati negli Stati Uniti hanno potuto intendersi, e, di conseguenza, suggerire che una specie di Federazione europea è sicuramente possibile.”

Sia detto per inciso, questo è esattamente l’argomento utilizzato da Ben Wattenberg che, nella sua opera The First Universal Nation, sostiene che gli Stati Uniti possiedono un diritto particolare all’egemonia mondiale in quanto inglobano tutte le nazioni e razze del pianeta.

L’identica idea è stata espressa da Newt Gingrich e da altri neoconservatori.

Fra gli altri temi proposti, alcuni sono al centro dell’ideologia neo-conservatrice di oggi. Il primo fra questi corrisponde all’opinione autenticamente liberale di un universalismo morale e politico. Questo ha costituito il nucleo della filosofia della politica estera di George W. Bush. In numerose occasioni Bush ha dichiarato che i valori politici sono i medesimi nel mondo intero ed ha utilizzato questa affermazione per giustificare l’intervento militare in favore della “democrazia”. 

Agli inizi degli anni Cinquanta, Raymond Allen, direttore dell’Ufficio di Strategia Psicologica (l’Ufficio di Strategia Psicologica fu immediatamente designato unicamente attraverso le sue iniziali PSB, senza dubbio allo scopo di tenere nascosto quello che veniva direttamente espresso dal nome intero) era già pervenuto alla seguente conclusione: 

“I principi e gli ideali contenuti nella Dichiarazione di Indipendenza e nella Costituzione sono destinati ad essere esportati e costituiscono il patrimonio degli uomini in tutto il mondo. Noi dovremo orientarci verso i bisogni fondamentali dell’umanità che, io credo, siano gli stessi per l’agricoltore del Texas come per quello del Pendjab.”

Certamente, sarebbe falso attribuire la diffusione delle idee unicamente alla manipolazione clandestina. Le idee si iscrivono in vasti movimenti culturali, le cui fonti originali sono molteplici. Ma è fuori dubbio che il dominio di queste idee può essere considerevolmente facilitato mediante operazioni clandestine, particolarmente in quanto i membri delle società dell’informazione di massa sono straordinariamente influenzabili. Non solamente essi credono a ciò che leggono sui giornali, ma immaginano di essere arrivati in modo autonomo alle conclusioni. Di conseguenza, l’astuzia per manipolare l’opinione pubblica consiste nell’applicare quello che è stato teorizzato da Bernays, introdotto e messo in pratica da Münzenberg ed elevato al rango di grande arte dalla CIA. 

Secondo l’agente della CIA Donald Jameson, rispetto ai comportamenti che l’Agenzia desidera suscitare mediante le sue attività, è evidente che la CIA desidera formare delle persone intimamente persuase che tutto quello che il governo mette in esecuzione sia giusto. Altrimenti detto, quello che la CIA e altre agenzie hanno messo in esecuzione in questo periodo è stato di adottare la strategia che bisogna associare al marxista italiano Antonio Gramsci, che affermava che l’“egemonia culturale” era essenziale per la rivoluzione socialista.

Disinformazione
Sulle tecniche di disinformazione esiste una quantità enorme di testi. 

Ho già fatto menzione sul fatto importante, formulato da Tchakhotine, che il ruolo dei giornalisti e dei media è fondamentale per assicurarsi che la propaganda avvenga in modo costante.

Tchakhotine scrive che la propaganda non dovrebbe interrompersi mai, formulando così una delle regole fondamentali della disinformazione moderna, vale a dire che il messaggio, per passare, deve essere ripetutamente reiterato. 

Prima di tutto, Tchakhotine afferma che le campagne di propaganda devono essere dirette in modo centralizzato e ben organizzate, cosa che è divenuta prassi nel tempo della “comunicazione” politica moderna. Per esempio, i membri laburisti del Parlamento Britannico non possono comunicare con i media senza l’autorizzazione del Direttore per le Comunicazioni, al numero 10 di Downing Street.

Sefton Delmer era allo stesso tempo un teorico e un esperto esecutore della black propaganda (propaganda sporca, disinformazione). Aveva creato una falsa stazione radio che, durante la Seconda Guerra mondiale, trasmetteva dalla Gran Bretagna verso la Germania e diffondeva il mito che esistevano dei buoni patrioti tedeschi che si opponevano ad Hitler. [N.d.tr.: Gustav Siegfried Eins. Questo era il nome della stazione radio che fingendo di essere tedesca, riusciva a seminare tra i suoi ascoltatori (tedeschi) l’idea di una Germania non così monolitica come l’avrebbe voluta il Führer.] Si sosteneva la finzione che si trattasse in realtà di una stazione tedesca clandestina che trasmetteva utilizzando frequenze vicine a quelle delle stazioni ufficiali. Questo genere di “black propaganda”  fa ancora parte dell’arsenale della “comunicazione” governativa statunitense.

Il New York Times ha rivelato che il governo emetteva dei bollettini informativi favorevoli alla sua politica, che venivano quindi diffusi nei programmi ordinari e presentati come produzioni delle stesse catene radiofoniche e televisive. 

Esistono numerosi altri autori che hanno trattato questo argomento e di alcuni di loro ho già parlato nella mia rubrica All News Is Lies – Tutte le notizie sono falsità, ma forse l’opera che corrisponde al meglio al dibattito attuale è quella di Roger Mucchielli, La Subversion, pubblicata in francese nel 1971, che dimostra come la disinformazione, una volta ritenuta tattica ausiliaria durante la guerra, sia divenuta la tattica predominante [13].

Secondo Mucchielli, la strategia si è sviluppata al punto tale che l’obiettivo attualmente è quello di conquistare un paese senza assolutamente attaccarlo fisicamente, in particolare facendo ricorso ad agenti interni che condizionano l’opinione pubblica.

Essenzialmente, si tratta dell’idea proposta e posta in discussione da Robert Kaplan nel suo saggio pubblicato in The Atlantic Monthly nel luglio/agosto 2003 e intitolato “Supremacy by Stealth – Supremazia assunta furtivamente”  [14].

Robert Kaplan, uno dei più sinistri teorici del Nuovo Ordine Mondiale e dell’Impero USamericano, difende esplicitamente l’utilizzazione illegale ed immorale della forza per permettere agli Stati Uniti di controllare il mondo intero.

Il suo saggio tratta del ricorso alle operazioni segrete, alla forza delle armi, a sporchi inganni, alla disinformazione, alle influenze clandestine, alla costruzione dell’opinione pubblica, perfino agli assassini politici, tutti mezzi che rivelano un’“etica pagana” destinati ad assicurare il predominio statunitense.

Un altro punto da sottolineare a proposito di Mucchielli è che è stato uno dei primi teorici a propugnare il ricorso a false organizzazioni non governative ONG, o “organizzazioni di facciata”, per provocare un cambiamento politico interno di un altro paese. 

Come Malaparte e Trotskij, Mucchielli aveva capito che non erano le circostanze “oggettive” che procuravano il successo o il fallimento di una rivoluzione, ma la percezione di queste circostanze creata ad arte dalla disinformazione.

Inoltre, Mucchielli aveva compreso che le rivoluzioni storiche, che venivano invariabilmente presentate come il prodotto di movimenti di massa, in realtà erano frutto dell’azione di un gruppo assolutamente ristretto di cospiratori molto ben organizzati.  

Come Trotskij, Mucchielli insisteva sul fatto che la maggioranza silenziosa doveva essere completamente esclusa dai meccanismi del cambiamento politico, precisamente perché i colpi di Stato sono opera di un ristretto numero di individui e non della massa. 

L’opinione pubblica costituisce il “forum” dove si pratica la sovversione e Mucchielli descrive i differenti modi di utilizzare i mezzi di comunicazione di massa per creare una psicosi collettiva.  Secondo lui, i fattori psicologici sono estremamente importanti a questo riguardo, in modo particolare nella ricerca di strategie importanti, come la demoralizzazione di una società. L’avversario deve essere indotto a perdere fiducia nella giustezza e nella fondatezza della sua causa e tutti gli sforzi devono essere prodotti per convincerlo che il suo avversario è invincibile. 

Ruolo dei militari
Prima di affrontare questo punto, richiamiamo alla mente ancora una questione di ordine storico: il ruolo dei militari nella conduzione di operazioni segrete e nell’influenza esercitata sui mutamenti politici. Si tratta di una questione di cui alcuni analisti contemporanei ammettono tranquillamente la valenza attuale: Kaplan approva il fatto che l’esercito degli Stati Uniti venga utilizzato per “promuovere la democrazia”.

Si compiace di sottolineare come un colpo di telefono di un generale USamericano sia spesso un mezzo migliore per incoraggiare un cambiamento politico in un paese del Terzo Mondo piuttosto che una esortazione dell’ambasciatore degli Stati Uniti. 

Kaplan cita un ufficiale addetto alle Operazioni Speciali dell’Esercito:
“Chiunque sia il presidente del Kenya, è sempre lo stesso gruppo di…giovanotti a dirigere le forze speciali e le guardie del corpo del presidente. Noi li abbiamo addestrati. Questo è quello che si dice influenza diplomatica!”

  
Giulio Andreotti


L’aspetto storico dell’argomento è stato di recente studiato da un accademico universitario svizzero, Daniele Ganser, in un suo libro Les Armées secrètes de l’OTAN [15].

Ganser comincia col menzionare il fatto che il 3 agosto 1990, Giulio Andreotti, allora Primo ministro, ammetteva l’esistenza di un’organizzazione armata segreta nel suo paese, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, conosciuta con il nome di Gladio, che era stata creata dalla CIA e dal MI6, e che era coordinata da una sezione poco ortodossa della NATO. 
 
Inoltre, Andreotti confermava una delle vociferazioni più persistenti nell’Italia del dopo-guerra.

Tantissime persone, fra cui magistrati inquirenti, avevano l’opinione che Gladio non facesse parte solamente di una rete di organizzazioni armate segrete create dagli Stati Uniti in Europa occidentale per combattere un’eventuale occupazione sovietica, ma che queste reti si erano adoperate per influenzare il risultato delle elezioni, addirittura stringendo sinistre alleanze con organizzazioni terroristiche. L’Italia era un bersaglio particolare, in quanto il suo Partito comunista era decisamente potente. 

All’inizio, questo gruppo armato segreto era stato messo in piedi con lo scopo di prepararsi ad affrontare l’eventualità di una invasione, ma sembra che abbia effettuato ben presto operazioni segrete miranti ad influenzare gli stessi processi politici, pur in assenza di invasioni.

Esistono numerose prove dell’ingerenza massicciamente invasiva degli Stati Uniti, soprattutto nelle elezioni italiane, in modo da impedire al Partito comunista l’accesso al potere. Per questa ragione molti miliardi di dollari erano stati offerti ai democratici cristiani.

Ganser continua nel sostenere che esistono le prove che alcune cellule della Gladio hanno organizzato attentati terroristici con lo scopo di fare accusare i comunisti e di indurre la popolazione spaventata a reclamare poteri speciali per lo Stato destinati a “proteggerla” dal terrorismo.
Ganser interpella l’individuo accusato di avere posizionato una delle bombe, Vincenzo Vinciguerra, che ha ben spiegato la natura della rete di cui era un semplice soldato.

Gladio faceva parte di una strategia mirante a “destabilizzare, al fine di stabilizzare”.

Le vittime degli attentati erano civili, donne, bambini, innocenti, sconosciuti, assolutamente estranei al gioco politico. La ragione era molto semplice: si trattava di forzare il popolo italiano a rivolgersi verso lo Stato per esigere una maggiore sicurezza. Questa era la logica politica che permeava tutti i massacri, di cui gli autori sono rimasti impuniti, dato che lo Stato non poteva dichiararsi colpevole di quello che era avvenuto.

Esiste un rapporto evidente con le teorie del complotto a proposito dell’11 settembre.

Ganser presenta tutta una serie di prove secondo cui si è agito là come con Gladio in Italia e le sue argomentazioni lasciano pensare che potrebbe essere avvenuta un’alleanza con dei gruppi estremisti, come in Italia ci si era affidati a gruppi dell’estrema sinistra come le Brigate Rosse.    Dopo tutto, quando Aldo Moro fu rapito – e in seguito assassinato – egli si era recato in Parlamento  per presentare un programma di coalizione fra democristiani, socialisti e comunisti, fatto che gli Stati Uniti erano assolutamente decisi a contrastare.

I tattici della rivoluzione del nostro tempo
Le opere storiche che ho citato ci aiutano a capire quello che sta avvenendo ai nostri giorni. I miei colleghi e il sottoscritto, del British Helsinki Human Rights Group, abbiamo potuto constatare che anche attualmente vengono utilizzate le stesse teniche.

Le principali tattiche sono state perfezionate in America latina negli anni 1970–80. Molti agenti segreti, specialisti nei rovesciamenti di regime all’epoca di Reagan e di Bush padre, hanno esercitato il loro mestiere senza problemi nell’ex blocco sovietico sotto Clinton e Bush figlio.

Il generale Noriega racconta nelle sue memorie che i due agenti della CIA e del Dipartimento di Stato, inviati prima per negoziare e poi per provocare la sua caduta dal potere a Panama nel 1989, si chiamavano William Walker e Michael Kozak.

Ora, il primo è riapparso in Kosovo nel gennaio 1999 quando, a capo della Missione di verifica e controllo, sovrintendeva alla costruzione del castello di menzogne sulle “atrocità” che servì poi come pretesto alla guerra.

In quanto a Michael Kozak, divenne ambasciatore in Bielorussia dove, nel 2001, inscenava l’operazione “Bianca cicogna” destinata a rovesciare il presidente Alexandr Loukachenko.
In uno scambio di lettere con The Guardian, nel 2001, Kozak ebbe la sfrontatezza di riconoscere che in Bielorussia faceva esattamente quello che aveva fatto in Nicaragua e a Panama, vale a dire “promuovere la democrazia”[16]

La tecnica moderna di colpo di Stato si presenta essenzialmente utilizzando tre tipi di strumenti:
le ONG; il controllo dei media; gli agenti segreti. Le loro attività sono interscambiabili, tanto che vale la pena di effettuare analisi non separatamente.

Serbia, 2000
Il rovesciamento di Slobodan Milosevic non fu il primo evento in cui manifestamente l’Occidente utilizzava influenze clandestine per provocare un cambiamento di regime.

Il rovesciamento di Sali Berisha in Albania nel 1997 e quello di Vladimir Meciar in Slovacchia nel 1998 sono stati fortemente influenzati dall’Occidente e, nel caso di Berisha, un sollevamento estremamente violento è stato presentato come un giusto esempio di spontanea presa del potere da parte del popolo.

Ho personalmente osservato come la comunità internazionale ed in particolare l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) abbiano falsificato i risultati del loro controllo delle elezioni in modo da assicurare il mutamento politico.

Per questo, il rovesciamento di Milosevic a Belgrado, il 5 ottobre 2000, è importante, visto che si trattava di una personalità molto conosciuta e che la “rivoluzione” che lo ha destituito ha implicato un uso decisamente sfacciato del “potere popolare”.

Il contesto del putsch contro Milosevic è stato brillantemente descritto da Tim Marshall, giornalista di Sky TV. Quello che Marshall mostra è tanto valido in quanto approva gli avvenimenti da lui evocati e si vanta dei suoi numerosi contatti con i servizi segreti, in particolare con quelli della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.  
Ad ogni istante, Marshall sembra essere al corrente di chi sono i principali agenti segreti. Il suo resoconto è denso di riferimenti ad “un agente del MI6 di Pristina”, a “fonti dei servizi segreti jugoslavi”, a “un uomo della CIA che ha aiutato a preparare il colpo di Stato”, ad “un agente dei servizi segreti della marina statunitense”, ecc.

Egli cita rapporti segreti dei servizi informativi serbi, conosce chi è il capo di stato maggiore del ministro britannico della Difesa che aveva messo a punto la strategia del rovesciamento di  Milosevic.

Marshall sa che le conversazioni telefoniche del ministro per gli Affari esteri britannico sono ascoltate; conosce chi sono gli agenti dei servizi segreti russi che accompagnavano Evgueni Primakov, il Primo ministro russo, a Belgrado durante i bombardamenti della NATO; è al corrente in quali stanze dell’ambasciata di Gran Bretagna si trovavano dei microfoni e dove si trovavano le spie jugoslave che ascoltavano le conversazioni dei diplomatici; sa che un membro della Commissione per le relazioni internazionali della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti è in realtà un agente dei servizi segreti della marina; sembra sapere che decisioni dei servizi segreti sono spesso assunte senza il completo accordo dei ministri.

Marshall descrive come la CIA abbia fatto da scorta alla delegazione dell’Esercito di Liberazione del Kosovo fino a Parigi per i colloqui di Rambouillet, prima della guerra, in cui la NATO lanciava alla Jugoslavia un ultimatum che sapeva non potere essere che respinto. Egli allude ad un “giornalista britannico” che serviva da intermediario fra Londra e Belgrado durante negoziati segreti tenuti ad alto livello estremamente importanti attraverso i quali i partecipanti avrebbero cercato di tradirsi gli uni con gli altri nel momento in cui il potere di Milosevic sarebbe crollato.

Uno dei temi che attraversano il suo libro, suo malgrado, è che la linea di separazione fra giornalisti e spie è sottile. All’inizio del libro, Marshall tratta di sfuggita di “legami inevitabili fra funzionari, giornalisti e politici”, affermando che costoro “lavorano tutti nel medesimo ambito”. Egli continua in tono scherzoso nel dire che era stata una “associazione fra spioni, giornalisti da strapazzo e politicanti, più il popolo” a provocare la caduta di Milosevic.

Marshall accetta il mito della partecipazione del “popolo”, ma il resto del suo libro mostra come in realtà il rovesciamento del presidente jugoslavo non sarebbe potuto avvenire se non attraverso strategie politiche concepite a Londra e a Washington.

Prima di tutto, Marshall fa ben comprendere che nel 1988 il Dipartimento di Stato e i servizi di sicurezza avevano deciso di utilizzare l’Esercito di Liberazione del Kosovo (ELK) per sbarazzarsi di Milosevic. Viene citata una fonte secondo cui “il progetto degli Stati Uniti era chiaro: quando sarebbe arrivato il momento, avrebbero utilizzato l’ELK per ottenere la soluzione del problema politico”, e con “problema” si intendeva la sopravvivenza politica di Milosevic.

Questo significava che si sosteneva il secessionismo terroristico dell’ELK per condurre in seguito una guerra contro la Jugoslavia al loro fianco.

Marshall cita Karl Kirk, un agente dei servizi segreti della marina degli Stati Uniti: “Finalmente, ci siamo impegnati in una vasta operazione, allo stesso tempo scoperta e segreta, contro Milosevic”. La parte segreta dell’operazione consisteva non solamente nel rinforzare le differenti missioni con agenti dei servizi segreti britannici e statunitensi inviati in Kosovo come “osservatori”, ma ugualmente – e questo era cruciale – nel fornire aiuto militare , tecnico, finanziario, logistico e politico all’ELK, che conduceva traffici di droga e di esseri umani e che assassinava civili. 

La strategia vedeva la sua luce alla fine del 1998 quando una “importante missione della CIA fu messa all’opera in Kosovo”.

Il presidente Milosevic aveva autorizzato ad entrare in Kosovo una missione diplomatica di osservatori per controllare la situazione di quella provincia. Immediatamente, questo gruppo fu ben infarcito di agenti segreti e delle forze speciali britanniche e statunitensi, di uomini della CIA e dei servizi segreti della marina USAmericana, di membri del Servizio Speciale Aereo (SAS) britannico e del “14.esimo Intelligence”, corpo dell’esercito britannico che opera al fianco del SAS per effettuare quella che viene definita come “deep surveillance”, sorveglianza profonda.

Lo scopo immediato dell’operazione era di effettuare la “preparazione di intelligence del terreno del conflitto” [metodo di analisi di un terreno suscettibile di diventare campo di battaglia ], versione moderna di quello che il duca di Wellington aveva l’abitudine di fare, vale a dire percorrere il campo di battaglia in lungo e in largo per rendersi conto della configurazione del terreno prima di affrontare il nemico. 

Quindi, come scrive Marshall, “ufficialmente la KDOM [Missione Diplomatica di Osservazione in Kosovo] era diretta dall’OSCE in Europa, ma ufficiosamente dalla CIA. Si trattava di uno schieramento della CIA.” Infatti, la maggior parte dei suoi membri operavano per un altro reparto della CIA, la DynCorp, una compagnia con sede in Virginia che impiega, secondo Marshall, soprattutto “membri di unità di élite dell’esercito USAmericano o della CIA”. 

Veniva utilizzata la KDOM, che più tardi si trasformava nella Missione di verifica in Kosovo, solo per fare dello spionaggio! Al posto di eseguire i compiti di controllo e di osservazione loro assegnati, i membri della Missione utilizzavano i loro sistemi di posizionamento globale GPS (un metodo di orientamento satellitare) per localizzare ed identificare gli obiettivi che in seguito la NATO avrebbe bombardato.

Si fa fatica a capire come gli Jugoslavi abbiano potuto permettere che 2000 agenti dei servizi segreti perfettamente addestrati percorressero il loro territorio, dato che, come viene dimostrato da Marshall, loro sapevano molto bene quello che stava avvenendo.

Il capo della Missione di verifica in Kosovo era William Walker, l’uomo che aveva avuto per missione di scalzare Noriega dal potere a Panama e che era stato ambasciatore degli Stati Uniti in Salvador il cui governo, appoggiato da Washington, si serviva di squadroni della morte.

Walker “scopriva” il “massacro” di Racak nel gennaio 1999, avvenimento utilizzato come pretesto per innescare il processo che avrebbe portato ai bombardamenti che ebbero inizio il 24 marzo.
Numerose testimonianze lasciano pensare che Racak sia stata una messa in scena e che i corpi trovati là fossero quelli di combattenti dell’ELK e non di civili, come si ebbe a pretendere. 
Quello che è certo è che il ruolo di Walker è stato così importante che la strada nazionale del Kosovo che conduce a Racak a lui è stata intitolata.  

Marshall scrive che la data della guerra – primavera 1999 – non è stata solamente decisa alla fine di dicembre 1988, ma che era stata contemporaneamente comunicata all’ELK.

Questo significa che, a “massacro” avvenuto, quando Madeleine Albright dichiarava : “Quest’anno la primavera è arrivata prima.”, lei si comportava esattamente come Goebbels quando, venendo a conoscenza dell’incendio del Reichstag nel 1933, avrebbe esclamato: “Come, di già?” 

In tutti i modi, Marshall scrive che quando la Missione fu ritirata alla vigilia dei bombardamenti della NATO, gli agenti della CIA che ne facevano parte consegnarono i loro cellulari satellitari e i loro GPS all’ELK.

“Gli Stati Uniti addestrarono l’ELK, in parte lo equipaggiarono e di fatto gli consegnarono un territorio”, scrive Marshall, anche se lui stesso, come tutti gli altri reporter, aveva contribuito a propagare il mito delle atrocità commesse sistematicamente da parte dei Serbi contro una popolazione civile albanese totalmente inerte.

Naturalmente, la guerra ebbe inizio e la Jugoslavia fu violentemente bombardata. Ma Milosevic restava al potere. Allora, Londra e Washington dettero inizio alla messa in pratica di ciò che Marshall definisce una “guerra politica” per poterlo destituire dal governo.

La “guerra politica” consisteva nel consegnare importanti somme di denaro e nel portare aiuto tecnico, logistico e strategico, compreso l’invio di armi, a gruppi differenti dell’“opposizione democratica” e ad Organizzazioni Non Governative della Serbia. 

In quel momento, gli Stati Uniti operavano principalmente per via indiretta attraverso  l’International Republican Institute [17], che aveva aperto uffici in Ungheria con lo scopo di sbarazzarsi di Milosevic.
Marshall spiega che ad una riunione “ci si trovò d’accordo sul fatto che gli argomenti ideologici sulla democrazia, sui diritti civili e sull’approccio umanitario sarebbero stati molto più convincenti se accompagnati, all’occorrenza, da denaro bastante.” 
Questo denaro, e molte altre cose, di conseguenza, entrarono in Serbia attraverso valige diplomatiche, in molti casi appartenenti a paesi in apparenza neutrali come la Svezia che, non essendo ufficialmente membro della NATO, poteva mantenere completamente aperta la sua ambasciata a  Belgrado.

Marshall aggiunge che il denaro entrava da tanti anni. Mezzi di informazione “indipendenti”, come la stazione radio B92 (dello stesso editore di Marshall), venivano finanziati in gran parte dagli Stati Uniti. Alcune organizzazioni controllate da George Soros [18] allo stesso modo giocarono un ruolo essenziale, come più tardi in Georgia nel 2003–04.

I cosiddetti “democratici” in realtà non erano niente altro che agenti stranieri, come veniva affermato in modo imperturbabile dal governo jugoslavo del tempo.
Inoltre Marshall spiega un fatto che attualmente è di dominio pubblico, vale a dire che sono sempre gli Stati Uniti che hanno concepito la strategia consistente nel proporre un candidato, nel caso jugoslavo Vojislav Kostunica, per unificare l’opposizione. Kostunica presentava il grande vantaggio di essere quasi uno sconosciuto agli occhi dell’opinione pubblica.

Marshall dimostra che la strategia comprendeva perfino un colpo di Stato accuratamente predisposto e che ebbe luogo come previsto. Egli mostra in maniera estremamente ricca di dettagli come i principali attori di quello che fu presentato dalle televisioni occidentali come un sollevamento “popolare” spontaneo in realtà non fossero null’altro che una banda di teppisti estremamente violenti e pesantemente armati al comando del sindaco della città di Cacak, Velimir Illic. Era un convoglio di Illic lungo 22 chilometri che aveva trasportato “armi, paras e squadre di kickboxeurs” fino all’edificio del Parlamento federale di Belgrado.  
Marshall ammette che gli avvenimenti del 5 ottobre 2000 “rassomigliavano sicuramente ad un colpo di Stato” piuttosto che ad una rivoluzione popolare, come volevano far credere tanto “candidamente” i media di tutto il mondo. 

Georgia, 2003
Molte delle tattiche applicate a Belgrado furono riprese ad nauseam in Georgia nel novembre 2003, per rovesciare il presidente Edouard Chevardnadze [19]. Furono espresse le medesime asserzioni di elezioni truccate e reiterate senza sosta. (In Georgia, si trattava di elezioni legislative, mentre quelle in Jugoslavia erano elezioni presidenziali). I media occidentali ripresero queste asserzioni, che erano state formulate ben prima dello scrutinio, senza porsi alcuna domanda. 
Venne scatenata una guerra di propaganda contro i due presidenti, nel caso di Chevardnadze dopo un lungo periodo in cui era stato incensato come un grande democratico riformatore.
Le due rivoluzioni si produssero dopo un identico “assalto al Parlamento” trasmesso in diretta dalle televisioni. I due trasferimenti di potere furono negoziati dal ministro russo per gli Affari esteri Igor Ivanov che prese l’aereo prima per Belgrado e poi per Tbilissi al fine di condurre in porto il trapasso di poteri dei due presidenti in carica. E, last but not least, anche l’ambasciatore USAmericano fu il medesimo nei due casi: Richard Miles.


Otpor ...



Comunque, la similitudine più evidente è consistita nell’utilizzazione di un movimento studentesco noto con il nome di Otpor (Resistenza) in Serbia e di Kmara (Basta! in georgiano) in Georgia [20].
I due movimenti avevano lo stesso simbolo, un pugno chiuso nero su bianco.
Quelli di Otpor addestravano gli aderenti di Kmara, e tutti venivano sostenuti dagli Stati Uniti.
Ed entrambi i movimenti erano manifestamente strutturati secondo la tattica comunista, che associa la parvenza di una struttura diffusa di cellule autonome con la realtà di una disciplina di natura leninista fortemente centralizzata.
Come in Serbia, fu rivelato alla pubblica opinione il ruolo giocato dalle operazioni segrete e dal denaro statunitense, ma solamente dopo gli avvenimenti. Durante questi eventi, le televisioni non cessarono di parlare di un sollevamento di “popolo” contro Chevardnadze.
Tutte le immagini contrarie a questa menzogna, che doveva produrre ottimismo, furono occultate, come il fatto che la “marcia su Tbilisi” guidata da Mikhail Saakachvili si era mossa da Gori, la città natale di Stalin, a partire dalla statua dell’ex tiranno sovietico, che resta pur sempre un eroe per tanti Georgiani.
I media non si inquietarono per nulla quando il nuovo presidente Saakachvili fu confermato nelle sue funzioni attraverso un’elezione che lo gratificava di una percentuale staliniana del 96 %.


...e Kmara

Ucraina, 2004
Nel caso dell’Ucraina, si osserva la medesima combinazione di attività da parte di ONG finanziate dall’Occidente, di mezzi di comunicazione e di servizi segreti [21].
Le ONG hanno giocato un ruolo enorme nel delegittimare le elezioni, addirittura prima che queste avessero luogo. Non cessavano di parlare di brogli generalizzati. In altri termini, le manifestazioni di strada che si scatenarono dopo il secondo ballottaggio, vinto da Yanoukovitch, si fondavano su affermazioni che circolavano ben prima dello spoglio del secondo turno.
La principale ONG responsabile di queste accuse, il Comitato degli elettori di Ucraina, non aveva ricevuto un quattrino dagli elettori ucraini, ma in compenso era stata generosamente finanziata dai governi occidentali. I suoi uffici erano ornati di ritratti della Madeleine Albright e il National Democratic Institute era uno dei suoi principali sostenitori. Questo Comitato non cessava di fare propaganda contro Yanoukovitch.
Durante questi avvenimenti, io stesso ho potuto riscontrare tanti abusi di questa propaganda, che consistevano principalmente nel ripetere instancabilmente che il governo praticava brogli elettorali, questo per dissimulare la frode praticata dall’opposizione che presentava Victor Youchtchenko, uno degli uomini più noiosi del mondo, come un politico carismatico e diffondeva la tesi ridicolmente inverosimile che egli era stato deliberatamente avvelenato dai suoi avversari. (Fino a questo momento nessuna azione giudiziaria è stata promossa a riguardo.)
Si potrà trovare un resoconto più completo sulla propaganda e sulle frodi nel rapporto “Ukraine’s Clockwork Orange Revolution – La rivoluzione del movimento arancione in Ucraina”  del British Helsinki Human Rights Group.
Una spiegazione interessante del ruolo giocato dai servizi segreti è stata fornita nel New York Times da C. J. Chivers, che descrive come il KGB ucraino abbia sempre operato in favore di Youchtchenko, ben inteso, in collaborazione con gli Stati Uniti.[22].
Fra altri articoli importanti su questo argomento, ricordiamo quello di Jonathan Mowat intitolato “The New Gladio in Action ? Ukrainian Postmodern Coup Completes Testing of New Template – Una nuova Gladio in azione? Il colpo postmoderno in Ucraina completa la verifica empirica di un nuovo modello”, che descrive in dettaglio come la dottrina militare era stata adattata per provocare un cambiamento di regime e come erano stati utilizzati diversi strumenti, dalla psicologia ai falsi sondaggi d’opinione [23].
L’articolo di Mowat è particolarmente interessante quando tratta delle teorie di Peter Ackermann, l’autore di “Strategic Nonviolent Conflict - Conflitto strategico non violento” [24] e di una relazione intitolata “Between Hard and Soft Power: The Rise of Civilian-Based Struggle and Democratic Change – Fra potere duro e debole: il sorgere di lotte fondate su movimenti civili  e il cambiamento democratico”, pronunciata presso il Dipartimento di Stato nel giugno 2004 [25].

Mowat è parimenti eccellente in materia di psicologia delle folle e della loro utilizzazione durante i  putsch. Egli attira l’attenzione sul ruolo di “sciami di adolescenti” e su quello dell’“isteria dei ribelli” e fa ricondurre l’origine della loro utilizzazione per fini politici al Tavistock Institute negli anni 1960. Questo Istituto era stato creato dall’Esercito britannico in relazione alla guerra psicologica dopo la Prima Guerra Mondiale e fra i suoi illustri studiosi possiamo trovare David Owen, ex Segretario di Stato per gli Affari esteri e Radovan Karadic, ex-Presidente della Repubblica serba di Bosnia.
Mowat mostra come le idee formulate in quell’Istituto da Fred Emery furono riprese da un certo Howard Perlmutter, professore di “architettura sociale” alla Wharton School e discepolo di Emery, per cui la diffusione del video “Rock a Katmandu” costituiva uno strumento appropriato per evocare il modo attraverso cui Stati di cultura tradizionale potevano essere destabilizzati, con l’obiettivo finale di dare luogo alla “civilizzazione globale”.
Aggiungeva che per una tale trasformazione erano necessari due requisiti: “La costruzione di una rete, che operi a livello internazionale, di organizzazioni internazionali e locali” e “la creazione di eventi globali” tramite “la trasformazione, mediante l’uso dei mezzi di informazione di massa,  di un evento locale in un avvenimento che possa avere ripercussioni internazionali immediate.”

Conclusione
Nulla di tutto ciò che abbiamo analizzato può venire rapportato a “teorie del complotto”, in quanto ci si trova nella effettiva presenza di autentici complotti!
Per gli Stati Uniti, la promozione della democrazia è un elemento importante della sua strategia generale sulla sicurezza nazionale.
Importanti settori del Dipartimento di Stato, la CIA, agenzie para-governative come il National Endowment for Democracy e ONG finanziate dal Governo, come la Carnegie Endowment for International Peace, che ha pubblicato numerose opere riguardanti la “promozione della democrazia”, tutti hanno un punto in comune: prevedono l’ingerenza, a volte violenta, delle potenze occidentali, in modo particolare degli Stati Uniti, nella politica di altri Stati e questa ingerenza è molto spesso utilizzata per incoraggiare l’obiettivo rivoluzionario per eccellenza, il cambiamento di regime. 

Note

[1] All’epoca della rivoluzione dei Cedri, Hezbollah costituiva la maggioranza relativa. Dopo il ritiro del contingente di pace siriano, Hezbollah dava vita ad una coalizione allargata, a cui partecipava, fatto da sottolineare, il Movimento patriotico libero del generale Michel Aoun.
Questa coalizione, in occasione delle elezioni legislative, si dimostrava maggioritaria dopo lo spoglio dei voti. Tuttavia, tenuto conto del sistema elettorale che privilegia le liste di rappresentanza politica rispetto ai voti individuali, questa coalizione popolare risultava minoritaria in Parlamento.

[2Technique du coup d’État, di Curzio Malaparte. Prima edizione Grasset 1931. Riedizione in formato tascabile, Grasset & Fasquelle (2008). Ed. italiana Mondadori, 2002 (esaurito)

[3Propaganda di Edward L. Bernays, Horace Liveright (1928).  Scaricabile. Versione francese : Propaganda : Comment manipuler l’opinion en démocratie, Zone (2007).

[4] « The Engineering of Consent », The Annals of the American Academy of Political and Social Science, 1947, 250 p. 113. (Questo articolo è stato riprodotto nella raccolta eponima “The engineering of consent”, University of Oklahoma Press, 1955.)

[5Manufacturing Consent : The Political Economy of the Mass Media, di Edward S. Herman e Noam Chomsky, Pantheon Books Inc (1988). Versione francese : La fabrication du consentement : De la propagande médiatique en démocratie, Agone, 2008.

[6Psychologie des foules, di Gustave Le Bon, 1895. Scaricabile

[7Masse und Macht, di Elias Canetti, Fischer Taschenbuch Vlg. Versione francese : Masse et puissance, Gallimard, 1986.

[8Le viol des foules par la propagande politique, di Serge Tchakhotine, Gallimard, riedizione in formato tascabile 1992.

[9Who Paid the Piper ?: CIA and the Cultural Cold War, di Frances Stonor Saunders, Granta, 1999. Versione francese: Qui mène la danse ? La CIA et la Guerre froide culturelle, Denoël, 2003.

[10] A proposito del Congresso per la libertà della Cultura, leggere « Quand la CIA finançait les intellectuels européens », di Denis Boneau e « Quand la CIA finançait les intellectuels italiens », di Federico Roberti, Réseau Voltaire, 27 novembre 2003 e 5 settembre 2008.

[11] « Les New York Intellectuals et l’invention du néo-conservatisme », di Denis Boneau, Réseau Voltaire, 26 novembre 2004.

[12The vital center ; the politics of freedom, di Arthur M. Schlesinger, Boston Houghton Mifflin Co, 1949.

[13La subversion, di Roger Muchielli, C.L.C ; nuova edizione rivista e aggiornata, (1976)

[14] « Supremacy by Stealth », di Robert Kaplan, The Atlantic Monthly, luglio/agosto 2003.

[15Les Armées secrètes de l’OTAN, di Daniele Ganser, edizioni Demi-lune (2007). Questo libro è pubblicato in appendice da Réseau Voltaire.

[16] « For Nicaragua, read Belarus » di Mark Almond ; « Belarus and the Balkans », lettera di Michael Kozak ; « Belarus president tightens grip on a resentful people » e « Belarussian foils dictator-buster... for now. Tested US foreign election strategy fails against Lukashenko », di Ian Traynor, The Guardian, 21 e 25 agosto, 10 e 14 settembre 2001.

[17] IRI è una sezione della NED. Vedere « La NED, nébuleuse de l’ingérence "démocratique" », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 22 gennaio 2004.

[18] « George Soros, spéculateur et philanthrope », Réseau Voltaire, gennaio 2004.

[19] « Les dessous du coup d’État en Géorgie », di Paul Labarique,Réseau Voltaire, 7 gennaio 2004.

[20] « L’Albert Einstein Institution : la non-violence version CIA », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 giugno 2007.

[21] « Washington et Moscou se livrent bataille en Ukraine », di Emilia Nazarenko e la redazione; e « Ukraine : la rue contre le peuple », 1 e 29 novembre 2004.

[22] « Back Channels : A Crackdown Averted ; How Top Spies in Ukraine Changed the Nation’s Path », di C. J. Chivers, The New York Times, 17 gennaio 2005.

[23] « The new Gladio in action ? Ukrainian postmodern coup completes testing of new template », di Jonathan Mowat, Online Journal, 19 marzo 2005.

[24Strategic Nonviolent Conflict : The Dynamics of People Power in the Twentieth Century, di Peter Ackerman et Christopher Kruegler, prefazione di Thomas C. Schelling, Greenwood Press (1993).

[25Presentation at the US State Department. Between Hard and Soft Power : The Rise of Civilian-Based Struggle and Democratic Change, di Peter Ackerman, 29 giugno 2004.

 

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A proposito delle “rivoluzioni colorate”…
Commento del traduttore sui recenti svuiluppi in Ucraina

10 febbraio 2010

Elaborazione di Curzio Bettio sulle recenti elezioni presidenziali in Ucraina, esempio di come sull’esito finale di una consultazione elettorale possa incidere incombente la minaccia di una “rivoluzione colorata”, in questo caso della cosiddetta “Rivoluzione Arancione”

Domenica 7 febbraio 2010, in Ucraina, Yulia Tymoshenko e Viktor Yanukovich si sono affrontati nelle elezioni presidenziali, ma la prospettiva di disordini post-elettorali minacciava qualsiasi ipotesi di veloce ritorno alla stabilità, secondo quanto prevedevano alcuni analisti.
Molti commentatori ritenevano possibile una vittoria di stretta misura di Yanukovich sulla Tymoshenko dopo un’aspra campagna elettorale, durante la quale ognuno dei due contendenti accusava l’altro di progettare brogli.
Se il margine di vittoria fosse risultato effettivamente ristretto, appariva per certo che lo sconfitto  avrebbe contestato i risultati.
La 49enne Tymoshenko minacciava di portare in piazza i suoi elettori e di ripetere la cosiddetta “Rivoluzione Arancione”, già avvenuta nel 2004 dopo la contestata vittoria di Yanukovich che, dopo essere stato dipinto come “il cattivo nel 2004”, attualmente si dimostrava gongolante all’idea di una possibile vittoria, ignorando di fatto la minaccia di proteste.
Comunque, un risultato elettorale chiaro sarebbe risultato decisivo, da un lato per una ripresa fruttuosa delle relazioni diplomatiche con la Russia compromesse dal 2004 dopo l’elezione di Viktor Yushchenko come presidente, data la sua posizione filo-occidentale, e d’altro canto per una accelerazione del processo di ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea.
Un ritorno alla stabilità, dopo cinque anni di dispute interne tra primo ministro e presidente, consentirebbe anche di fornire nuova fiducia agli investitori, fondamentale per l’economia dell’Ucraina duramente colpita dalla crisi globale.
Anche i 16,4 miliardi di dollari di prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale dipendono dal risultato elettorale, dopo che l’ultima tranche del prestito è stato bloccata per il mancato rispetto, da parte ucraina, degli impegni sul bilancio.
Eventuali scontri post-elettorali provocherebbero solo ritardi.
“La possibilità, molto concreta, di una vittoria di stretta misura provocherebbe, quasi certamente, le contestazioni dello sconfitto, ritardando di fatto l’insediamento del nuovo presidente”, si legge in una nota del gruppo Eurasia.
Yanukovich è particolarmente popolare nell’est industriale e nel sud del paese, oltre ad avere il sostegno degli industriali e dei gruppi di interesse meridionali.
La Tymoshenko, invece, è molto forte nelle regioni occidentali e nel centro del paese, anche se molti commentatori dubitavano che questo potesse bastare a farle ottenere i voti necessari per battere il suo avversario.
Yanukovich, appena la sua vittoria al ballottaggio delle elezioni presidenziali gli è sembrata cosa fatta, ha promesso di “conquistare la fiducia di tutti gli Ucraini”, una volta al lavoro.
Quindi, dalla regione delle miniere alla presidenza, ma dietro l’ascesa del candidato filorusso ci sarebbero gli oligarchi dell'industria.
Massiccio di corporatura, sbrigativo, autoritario, a volte un po’ ruvido, il cinquantanovenne Viktor Yanukovich è un perfetto “testimonial” dell’Est ucraino, collettivista e filorusso, ancora lontanissimo dall’Ovest ucraino che guarda all’Europa.
Negli ultimi tempi ha cercato di ammorbidire la sua immagine di “uomo del Donetsk”, la regione mineraria dell’Ucraina, e ha perfezionato la lingua ucraina, che ancora pochi anni fa, abituato da sempre al russo, parlava decisamente male.
Yanukovich aveva subito una brutta sconfitta nel 2004, quando la sua vittoria venne annullata a suon di manifestazioni e al nuovo voto per la presidenza la spuntò Viktor Yushchenko.
“Dagli errori si impara, ci si rafforza”, ha ripetuto negli ultimi giorni pre-ballottaggio, deciso a non permettere di nuovo agli “ex arancioni” di sbarrargli la strada verso la massima carica del Paese. L’appoggio russo durante la campagna elettorale è stato all’insegna della massima discrezione e per staccarsi di dosso l’etichetta di “filorusso” Yanukovich ha parlato molto di democrazia e di Europa.
Questo candidato dell’Est ucraino, con un passato da metalmeccanico e poi da direttore di fabbrica, nel 1997 fu nominato governatore del Donetsk all’epoca della presa del potere economico e politico dei grandi oligarchi, quando diversi clan lottavano per il controllo delle industrie e delle miniere nella regione. Dietro la sua repentina ascesa ci sarebbe stato il potentissimo uomo d’affari locale Rinat Akhmetov, poi diventato l’uomo più ricco del Paese.
Nella parte orientale dell’Ucraina, politica e industria sono difficilmente scindibili e qui Yanukovich è davvero a casa sua: nessuno gli contesta errori linguistici e neppure gli vengono rinfacciati i suoi trascorsi giovanili burrascosi.
La sua popolarità è sempre altissima e all’uscita dei seggi tutti confermavano, senza esitazione, il voto per il candidato filorusso.
Messo fuori gioco dalla Rivoluzione arancione nel 2004, Yanukovich si è ripreso in fretta e già nel 2006 tornava primo ministro, sfruttando le divisioni nel campo filo-occidentale.
Ieri la resa dei conti, l’ultima battaglia con “gli arancioni”: il risultato sembra è ormai chiaro, il nuovo presidente ha raggiunto il 48,67% di preferenze, tre punti percentuale in più su Iulia Tymoshenko, che comunque non si dà per vinta e denuncia irregolarità nel voto.
La premier dichiara: “Serve un terzo turno”. Gli “arancioni” minacciano di tornare
in piazza. E a Kiev cresce la tensione.
La filo occidentale ucraina Yulia Timoshenko ha dato mandato ai suoi avvocati di impugnare in tribunale i risultati del ballottaggio presidenziale, suggerendo l’ipotesi di un terzo turno.
Come accadde nel 2004, quando le proteste di piazza della rivoluzione arancione portarono all’annullamento per brogli della vittoria del leader filorusso, Viktor Yanukovich - vincitore dell’attuale ballottaggio - e al successo del presidente uscente, Viktor Yushenko.
Ma “la vera vittoria sembrerebbe quella della democrazia”, come ha sottolineato l’Osce.
Secondo l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea, infatti, le elezioni si sono svolte “in modo trasparente e onesto”, nonostante le reciproche accuse di brogli. Anzi, “hanno dato una dimostrazione impressionante di democrazia”, e quindi sono “una vittoria per tutti in Ucraina”, ha sentenziato il presidente dell’assemblea parlamentare dell’Osce Joao Soares, invitando chiaramente la perdente ad una “transizione pacifica e costruttiva del potere”.
Il Paese, che con la protesta di piazza aveva detronizzato il neo vincitore Yanukovich per supposte frodi di massa, cinque anni dopo è pronto ad accettarne il legittimo successo voltando le spalle ai litigiosi arancioni, a Viktor Yushenko, uscito umiliato al primo turno, e in parte anche ad un’Europa che sembra sempre più lontana e indifferente, interessata solo al transito del gas russo.
Così un’Ucraina rassegnata si affida a Yanukovich e ai suoi agganci con la grande industria del sud-est russofono del Paese. Yanukovich ha già invitato la sua rivale a dimettersi e ha cominciato a corteggiare l’oligarca Serghiei Tighipko e l’ex presidente del parlamento Arseni Iatseniuk, entrambi usciti al primo turno. Il suo obiettivo dichiarato è creare una nuova maggioranza alla Rada, il parlamento ucraino, che deve riunirsi al più presto, per non dover essere costretto ad una conflittuale coabitazione con la Timoshenko.
Il vero nodo del dopo elezioni è proprio questo. La premier non è tenuta per legge a dimettersi, se riesce a mantenere la sua fragile maggioranza. Ma non è escluso che molti deputati salgano sul carro del vincitore.
In caso contrario, Yanukovich sarebbe costretto ad indire elezioni anticipate, con almeno due rischi: una nuova battaglia con la coriacea Timoshenko e l’ingresso nella Rada di Tighipko, astro nascente della politica ucraina (13% al primo turno) e possibile futuro premier.
È in questo contesto politico che la Yulia deve giocarsi il suo spazio di manovra, non tanto nei tribunali e non più nelle piazze, dopo le valutazioni dell’Osce che l’hanno indotta a posticipare due volte una conferenza stampa nella sede del governo.
Nella capitale, imbiancata da una nuova nevicata, non si sono colti segni di tensione e anche le diverse migliaia di militanti pro Yanukovich scesi in città per presidiare la commissione elettorale hanno un’aria festosa in piazza Maidan, già teatro della rivoluzione arancione.
Nel documento presentato si fa cenno alle minacce della Yulia Tymoshenko di portare in piazza i suoi elettori e di ripetere la cosiddetta “Rivoluzione Arancione”, già avvenuta nel 2004.



Originale da: The Technique of a Coup d’État

Articolo originale pubblicato il 21-7-2009 e il 4-1-2010

L’autore

Curzio Bettio è membro di Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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