venerdì 28 maggio 2010

Chi ha fallito in Iraq?

di Ghassan Charbel غسان شربل, Al Hayat, 24-5-2010. Tradotto da Giorgioguido Messina, Tlaxcala
Gli americani sono arrivati in Iraq da un altro pianeta. Questa parte del mondo vive una fase storica diversa. Immaginavano di poter operare chirurgicamente e profondamente nella regione eliminando il regime di Saddam Husseyn.

Il politico iracheno sorride. L'esperienza ha dimostrato che gli americani hanno commesso un'errore nel leggere le istanze del popolo ed i loro sentimenti. Ritenevano che la caduta di Saddam avrebbe permesso loro di ricostruire l'Iraq come fecero in Germania e Giappone. Hanno dimenticato le differenti condizioni e il grado di sviluppo economico e sociale, nonché le diversità religiose e culturali.

Nei loro uffici distanti gli “architetti” inseguono un sogno ingenuo. Credevano che la democrazia fosse il solo sogno che avessero i popoli della regione. E che semplicemente aprendo la finestra  questo avrebbe incoraggiato gli iraniani e gli arabi ad invadere le strade seguendo l'esempio iracheno.

Non sapevano che noi, con le nostre etnie, sette e dottrine, ci trasciniamo appresso una storia di scontri, paure e tentativi di annientamento e cancellazione. Non sapevano che la nostra vera identità, come i sentimenti di lealtà, riduce i confini nazionali ma li oltrepassa. Non hanno capito che la nostra vera patria sono le nostre dottrine o le regioni che ci assomigliano.

Ho ascoltato funzionari, politici ed intellettuali convenire sul fatto che il ruolo americano è diventato secondario. L'invasione è riuscita a rovesciare il regime di Saddam ma ha fallito nel costruire un modello democratico attraente che stimolasse la gente della regione ad impegnarsi in un progetto di democrazia e di cambiamento di stile di vita all'ombra del pluralismo e dello stato di diritto. E' chiaro che gli americani non sono un ente di beneficenza puro.

Anche il semplice visitatore in Iraq sente le confessioni amare di politici ed intellettuali. Il racconto del fallimento americano gettato a volte come una coperta sul fallimento degli iracheni stessi, il loro fiasco nell'approfittare rapidamente dell'opportunità e fare proprio un Paese con delle istituzioni ed uno stato di diritto.

Uno dei politici include gli iracheni stessi nella lista di chi ha profanato l'Iraq. Racconta gli orrori della violenza nelle strade ed il saccheggio dei patrimoni storici, dei ministeri e delle istituzioni. Il politico denuncia le lobbies straniere che continuano a saccheggiare il suo Paese, ma vede la catastrofe nel contributo delle forze irachene al festival di questo saccheggio perenne.



Il futuro dell'Iraq è oscuro. Si sente fare questo discorso da molti. L'iracheno sente che da che era giocatore è diventato terreno di gioco. Era una nazione ed è diventato un campo. Il sogno che un Iraq forte torni ad essere la porta orientale del mondo arabo non è un sogno prossimo a realizzarsi. Il restauro del lato iracheno del triangolo che unisce Turchia ed Iran richiederà molto tempo ed il ritorno ad un Iraq forte sembra impossibile a causa della sua composizione e dei cambiamenti che lo hanno investito.

All'ingresso della regione curda aumentano le bandiere regionali al fianco di quelle irachene. Un grande cambiamento nella vita dei curdi e dell'Iraq. Per la prima volta nella storia i curdi dormono all'ombra della loro bandiera e del potere che hanno eletto. La “Repubblica di Mahabad”, formatasi nei territori iraniani durante gli anni quaranta del secolo scorso, non visse che pochi mesi. Il Kurdistan iracheno è un'altra storia. Non è possibile inserire la leadership curda nella lista dei perdenti.

Domani partiranno gli americani. Partirono decenni fa dal Vietnam. L'Impero ha la capacità di sopportare il fallimento e superarlo. L'importante è non consolidare l'insuccesso e non rendere ogni appuntamento elettorale una miccia per guerre civili e sommosse. La regione non può sopportare il fallimento iracheno a lungo.

 

Originale da: Al Hayat-من فشل في العراق؟Articolo originale pubblicato il 24-5-2010

Fonte di questa traduzione:
http://canaledisicilia.blogspot.com/2010/05/chi-ha-fallito-in-iraq.html

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giovedì 27 maggio 2010

Fabbriche di catastrofi e campi profughi

di Ghassan Charbel غسان شرب,  Al Hayat, 17-5-2010. Tradotto da  Giorgioguido Messina, Tlaxcala
I piccoli giocano all'incrocio dei vicoli. Corrono e litigano. Inviano le loro risate senza esitare. Non si lamentano della durezza del luogo. Né dell'acqua stagnante o dei fossi. Ridono come chi si burla del proprio destino. Più in là con gli anni boicotteranno le risate.

Il campo profughi non è cambiato molto. Il numero degli abitanti si è moltiplicato più volte. Si sono moltiplicati i piccoli nidi attaccati l'un l'altro e sovraffollati. E il numero degli abitanti delle tombe. Caos di fili elettrici. Gli sguardi di rimprovero affacciati alle piccole finestre. I vestiti appesi a fili corti. Le auto che dissipano il tempo. Dentro le stanze la ruggine aggredisce le vecchie chiavi. E l'età aggredisce le immagini dei martiri.

Il campo profughi non è cambiato molto. L'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) è la massima compassione dei responsabili internazionali. Solo le parabole satellitari prosperano. Le antenne sono un conforto nel campo. Gli abitanti si sono stancati di ripetere il loro attaccamento al diritto di ritorno. Il ritorno è disponibile solo via satellite. Distinguono tra il loro Paese e quello che era il loro Paese. Tra il mostro degli insediamenti che preda terra e cielo e i documenti di proprietà. Tra le case intessute nelle loro carni e l'accrescersi dei loro sogni impossibili. Questo è il tempo palestinese-arabo contemporaneo: canali satellitari e campi profughi.

Sulla piccola terrazza siede un uomo sessantenne, fuma. Vicino a lui un paio di piantine di basilico e d'altre erbe. Come se cercasse di ricordare che era lui il padrone di quella terra, per quanto piccola fosse. Padrone di una terra adatta alla semina e alla sepoltura. Come se cercasse nel verde delle piante assediate una risposta al nero degli anni che  passano. Le rughe del suo viso sembrano fogli di quaderno. Il quaderno della vita nel campo. Non lontano dalla patria aumenta la separazione. Il quaderno racconta la difficoltà del pane. La difficoltà del lavoro. La difficoltà di essere un rifugiato. Di nascere ed essere sepolto in un campo.

Il campo sembra tranquillo e sicuro. Tuttavia il visitatore deve essere più vigile. Sorge un problema e compaiono persone armate. Cominciano a volare le pallottole, poi tuonano le bombe. Anche il campo è soggetto a divisione, tra i radicali. Di quartieri, moschee e fucili. Divergono sul modo più efficace per raggiungere la Palestina. Sul modo più efficace per controllare l'incrocio più vicino o il quartiere adiacente.

Non hanno rinunciato al loro diritto e al loro sogno, Ma dentro al campo hanno visto le stagioni andare e venire. Il campo resta e loro in esso. Hanno visto il processo di pace andare e venire. Gli aerei andare e venire. Hanno visto i nomi dei generali del campo andare e venire, ma il campo restare, e loro in esso.

A volte gli altoparlanti risuonano e li adunano. Mostrano rabbia e protesta. Poi tornano alla vita. Giovani senza lavoro o con un lavoro che non garantisce una vita pressoché dignitosa. Il sogno di emigrare si scontra con la mancanza di documenti o di soldi. La durezza ha allungato il tempo. Il palestinese nasce nel campo. Baratta i vestiti macchiati. E il kalashnikov. E la kefia.  Si sposa, ha dei  figli e moltiplica il numero dei rifugiati. Sogna di tornare alla terra che ama, poi si stende sulla terra del campo.




L'ingresso del campo di Ain al-Hilweh


Nel campo di Ain al-Hilweh, vicino Sidone, le immagini scorrono nella tua testa. La kefia di Yasser Arafat. Il simbolo della vittoria. L'aviazione che non dorme. Oslo. La regione crolla sul leader simbolo. Ricorda Mahmud Darwish e il filo delle grida di gioia (1) in un discorso passeggero. Ricorda anche le ferite della separazione palestinese (2). I termini della riconciliazione nazionale. La tentazione di non firmare. Il lusso di non firmare.

L'anniversario della Nakba. L'anniversario della grande Nakba. L'estrema povertà. La memoria del mondo che dimentica. Un mondo deserto e selvaggio. E una regione soffocata da fabbriche di catastrofi e campi profughi.


(1)-  Si fa riferimento alla poesia “Nozze”
(2)- Si fa riferimento alla poesia “Diario di un palestinese ferito”




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mercoledì 26 maggio 2010

Manifesto per la libertà del pensiero economico

Contro la dittatura della teoria dominante e per una nuova etica
di  PAOLO SYLOS LABINI ASSOCIAZIONE

Il Manifesto si propone di suscitare una discussione aperta sugli orientamenti della ricerca economica e delle sue implicazioni politiche e culturali, riprendendo i temi della “Lettera al Direttore” pubblicata su “Repubblica” il 30 settembre 1988, e firmata da Giacomo Becattini, Onorato Castellino, Orlando D’Alauro, Giorgio Fuà, Siro Lombardini, Sergio Ricossa e Paolo Sylos Labini. L’Associazione Paolo Sylos Labini, che si è fatta promotrice dell’iniziativa, raccoglie le adesioni (per firmare vedi a fine pagina). Su questo sito si trova un apposito spazio per ospitare commenti ed analisi da parte di tutti coloro (singoli individui, associazioni, siti web ecc.) che vorranno aderire al manifesto.
Superate le 700 firme
Le adesioni al “Manifesto” promosso dall’Associazione Paolo Sylos Labini*
  • Critica Liberale
  • Sbilanciamoci.info
  • Economia e Politica
  • Associazione Rossi-Doria
  • Movimento d’azione giustizia e libertà
  • Giorgio Ruffolo
  • Alessandro Roncaglia
  • Marcella Corsi
  • Roberto Petrini
  • Stefano Sylos Labini
  • Francesco Sylos Labini
  • Loretta Napoleoni
  • Enzo Marzo
  • Mario Pianta
  • Riccardo Realfonzo
  • Agostino Megale (Segretario confederale Cgil nazionale e presidente Ires Cgil)
  • Mauro Gallegati
  • Luciano Gallino
  • Luciano Barca
  • Massimo Paradiso
  • Giulietto Chiesa
  • Michele Salvati
  • Marcello Degni
  • Giovanni Vetritto
  • Attilio Pasetto
  • Stefano Zamagni
  • Roberto Artoni
  • Giovanni Scanagatta (segretario generale UCID)
  • Marco Berlinguer
  • Michele Macri’
  • Paolo Raimondi
  • Valeria Panzironi
  • Stefano Prezioso
  • Pierangelo Dacrema
  • Carlo D’Adda
  • Salvatore Biasco
  • Paolo Palazzi
  • Anna Giunta
  • Giacomo Becattini
  • Cristina Marcuzzo
  • Michele de Benedictis
  • Gilberto Seravalli
  • Bruno Jossa
  • Giorgio Lunghini
  • Massimo Livi Bacci
  • Stefano Fassina (Responsabile Economia e Lavoro PD)
  • Laura Pennacchi
  • Arrigo Opocher
  • Pier Luigi Porta
  • Mario Sarcinelli
  • Gaetano Sabatini
  • Marco Cipriano
  • Gianni Viaggi
  • Roberto Romano
  • Emilio Carnevali
  • Paolo De Joanna
  • Ferruccio Marzano
  • Cosimo Perrotta
  • Claudio Gnesutta
  • Loredana Mozzilli
  • Pierfranco Pellizzetti
  • Nadia Urbinati
  • Cristina Comencini
  • Antonella Stirati
  • Fabrizio Botti
  • Carlo D’Ippoliti
  • Guglielmo Forges Davanzati
E tra gli altri ….
  • Paolo Bosi
  • Alfonso Gianni
  • Nicola Acocella
  • Mino Vianello
  • Marzio Catarsi
  • Duccio Cavalieri
  • Lanfranco Turci
  • Gianfranco Viesti
  • Carla Ravaioli
  • Sergio Ferrari
  • Stefano Zapperi
  • Annamaria Testa
  • Andrea Ginzburg
  • Mario Mazzocchi
  • Alberto Niccoli
  • Silvia Larizza
  • Jose’ de Faira-Costa
  • Giovanni Palmerio
  • Fabrizio Battistelli
  • Terenzio Cozzi
  • Pietro Alessandrini
  • Antonella Picchio
  • Carlo Panico
  • Paolo Pini
  • Sergio Cesaratto
  • Sebastiano Fadda
  • Gugliemo Chiodi
  • Guido Ortona
  • Elisabetta Basile
  • Francesca Bettio
  • Daniela Parisi
  • Salvatore Rizzello
  • Annamaria Simonazzi
  • Sergio Rossi
  • Cristiano Antonelli
  • Gustavo Visentini
  • Marco Causi
  • Bruno Contini,
  • Paolo Guerrieri,
  • Giuseppe Di Taranto.
  • Antonio Di Majo
  • Andrea Salanti
  • Alessandro Vercelli
  • Mauro Baranzini
  • Frederic S. Lee
  • Tae-Hee Jo
  • Alessandro Vercelli
Segue qui.
*le firme sono disposte in ordine di arrivo

1. La teoria dominante è in crisi

Oggi dopo anni di atrofizzazione si affaccia un nuovo sentire al quale la scienza economica deve saper dare una risposta. La crisi globale in atto segna un punto di svolta epocale. Come in tanti hanno rilevato, oggi entrano in crisi le teorie economiche dominanti e il fondamentalismo liberista che da esse traeva legittimazione e vigore. Queste teorie non avevano colto la fragilità del regime di accumulazione neoliberista. Esse hanno anzi partecipato alla edificazione di quel regime, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi. E’ necessario ricondurre l’economia ai fondamenti etici che avevano ispirato il pensiero dei classici.

2. E’ urgente riaprire il dibattito economico

E’ urgente riaprire il dibattito sulle fondamenta delle diverse impostazioni teoriche presenti nel campo economico. Occorre respingere l’idea – una giustificazione di comodo per tanti economisti e commentatori economici mainstream – che esista una sola verità nella scienza economica. Occorre dare spazio alle teorie alternative – keynesiana, classica, istituzionalista, evolutiva, storico-critica nella ricchezza delle loro varianti – nell’insegnamento e nella ricerca. Occorre adeguare ai tempi i nostri strumenti, assumendo l’analisi di genere nei nostri studi. E’ necessario dare “diritto di tribuna” ad ogni nuova idea economica nel segno della libertà e del libero confronto. Le concentrazioni di potere (nelle università, nei centri di ricerca nazionali e internazionali, nelle istituzioni economiche nazionali e internazionali, nei media), come quelle che hanno favorito nella fase più recente l’accettazione acritica del fondamentalismo liberista, debbono essere combattute.

3. Un’economia al servizio delle persone

La scienza economica dev’essere intesa in modo ampio, senza definizioni unilaterali e con piena apertura all’interscambio con le altre scienze sociali. L’obiettivo della ricerca dovrebbe consistere nella comprensione della realtà sociale che ci circonda, come premessa per scelte politiche dirette a migliorare la condizione di vita delle persone e il bene comune.

4. Un metodo non più fine a se stesso

A questo fine va indirizzato l’utilizzo delle tecniche disponibili, dall’analisi storiografica a quella econometrica, dall’analisi delle istituzioni alla costruzione di modelli matematici, senza preclusione verso alcuna tecnica ma allo stesso tempo senza che la raffinatezza tecnica dell’analisi divenga un obiettivo autoreferenziale, fonte di conformismo e di appiattimento nella formazione delle giovani leve di economisti. Per questo, va favorito un confronto critico tra impostazioni e analisi diverse.

5. Una nuova agenda

Suggeriamo cinque temi – su cui promuovere studi e iniziative – che ci sembrano di particolare rilievo nella fase attuale:
  1. Mercato, stato e società. Dopo decenni in cui il mercato e la sua presunta “mano invisibile” hanno invaso gli spazi dell’azione pubblica e delle relazioni sociali, è necessario pensare nuove forme di integrazione tra mercato, stato e società, con attenzione per i temi della democrazia, della giustizia, dell’etica, in un quadro di sostenibilità ambientale dello sviluppo;
  2. Una globalizzazione dal volto umano. Dopo una mondializzazione dei mercati trainata dalla finanza e priva di regole, è necessario pensare a un’integrazione internazionale tra i popoli che sia democraticamente governata, che alimenti i flussi di conoscenze e di persone accanto a quelli di merci, e che promuova la cooperazione sociale anziché la feroce competizione globale.
  3. Un nuovo umanesimo del lavoro. E’ necessario ripensare il ruolo del lavoro nelle società moderne, come fonte di reddito dignitoso per tutti, di conoscenze, di relazioni sociali e come strumento di formazione ed emancipazione civile dei cittadini.
  4. La riduzione delle disuguaglianze. Le differenze di reddito e di potere, tra paesi e – al loro interno – tra gruppi sociali e persone sono cresciute in modo inaccettabile ed è necessario quindi pensare ad un modello di organizzazione delle relazioni che punti realmente a ridurre le disuguaglianze sociali, territoriali, tra uomini e donne e tra le singole persone. Questo è necessario anche per individuare una credibile via d’uscita dalla crisi, che richiede un rilancio dei consumi individuali e collettivi e degli investimenti pubblici, e l’emergere di una nuova domanda da parte di paesi e gruppi che in passato erano rimasti al margine dello sviluppo e del benessere sociale. Senza tali cambiamenti il rischio concreto è che si punti a ripristinare il regime di accumulazione neoliberista fondato sulla speculazione finanziaria, e che si alimentino per questa via crisi ulteriori ed ancora più gravi dell’attuale.
  5. Uno sviluppo più equilibrato. Va favorita la transizione da una crescita quantitativa senza limiti verso uno sviluppo più equilibrato basato sulla qualità. Occorre impegnarsi per costruire degli indici alternativi al prodotto interno lordo che è inservibile e fuorviante dal momento che non riesce a rappresentare diverse attività economiche, i costi ambientali e il reale benessere della popolazione.

Originale da: http://www.syloslabini.info/online/?page_id=864
Articolo originale pubblicato nel maggio 2010
L’autore

Tlaxcala
 è la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne gli autori e la fonte.

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Grecia, “l’ultima tappa della crisi”

di Jorge Altamira, 5/5/2010. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala

Paradosso crudele. È bastato che l’operazione di salvataggio, talmente reclamizzata, della Grecia venisse resa nota che, nel giro di poco più di 24 ore, appariva come evidente che il default (il crollo con la conseguente cessazione dei pagamenti) della Grecia fosse inevitabile. Il raddoppio della somma assegnata al salvataggio, da 60 a 120 miliardi di euro, causava l’effetto opposto a quello che ci si attendeva, dato che la dimensione dell’operazione metteva in rilievo l’insolvibilità dello Stato greco. 
La ripercussione internazionale del naufragio ellenico è stata impressionante: il crollo delle Borse di  Madrid o di Milano è stato catastrofico, ma nemmeno quelle di New York, di Shangaï o di San Paolo sono state risparmiate
Il crollo della Grecia traccia una linea di separazione nei percorsi della bancarotta capitalistica  mondiale: la prima fase va dalla crisi della banca d’investimenti usamericana Bear and Stern, nel luglio 2007, fino al fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008; la seconda fase si estende da questa data all’incombente default della Grecia che è andato a svilupparsi in questi giorni. 
Ciò che gli analisti anglo-sassoni denominano come counterparty risk, vale a dire la minaccia di bancarotte finanziarie, ritorna sul palcoscenico del teatro, fatto che si pensava superato grazie alle emissioni massicce di denaro da parte delle banche centrali, specialmente negli Stati Uniti ed in Cina.

Un “aggiustamento” criminale

La causa fondamentale del fallimento del piano di salvataggio, addirittura prima che questo venga messo in opera, deriva dall’aggiustamento mostruoso che viene imposto al popolo greco.
La gigantesca limitazione del potere di acquisto della popolazione, a causa delle riduzioni dei salari e delle pensioni; degli aumenti siderali delle tasse sui generi di consumo; dei tagli enormi alle spese sociali; presagisce un acuto inasprimento della recessione economica, che non può se non aggravare l’incapacità da parte dell’erario ad onorare il debito pubblico.
Precisamente per questo, si stima che il debito dovrebbe aumentare nel periodo dell’aggiustamento, non solamente in proporzione al PIL ma anche in valore assoluto (come conseguenza della necessità di dovere pagare dei tassi di interesse molto superiori rispetto alla media dei mercati internazionali). Detto altrimenti, la miseria sociale si accompagnerà ad una accentuazione della vulnerabilità fiscale e finanziaria. La parte essenziale del debito pubblico della Grecia si trova nelle mani delle banche nazionali, quantunque dominate dalle banche francesi e tedesche. Questa situazione ha già provocato una corsa al ritiro dei depositi e alla fuga dei capitali (verso il paradiso fiscale di Cipro).

In Argentina, nel 2001, quando il titolare del ministero dell’Economia era López Murphy, questo ministro aveva tentato una simile operazione deflazionista, benché in proporzioni infinitamente minori. Grazie alla resistenza popolare, il suo fallimento ha suonato la fine del “prima-dell’ultima fase-della crisi” e comunque ha dato la stura all’“ultima” fase, quella di Cavallo.
(N.d.tr.: Domingo Cavallo, è noto per il piano di convertibilità che ha stabilito il rapporto di parità tra il dollaro americano e il peso argentino tra il 1991 e 2001. Tale piano ha ridotto l’inflazione da oltre il 1300% nel 1990 a meno del 20% nel 1992 fino a quasi lo zero nel resto degli anni Novanta, salvo poi provocare l’insolvenza del debito pubblico argentino. Nel 2001 chiamato dal presidente De la Rúa a fare il ministro dell’economia, rinegozia il debito estero con il FMI. La crescita del rischio-paese e la pressione degli investitori internazionali provocano una corsa al ritiro dei capitali dalle banche e alla fuga all’estero dei capitali. Nel novembre 2001, Cavallo introduce una serie di misure per limitare l’uso dei contanti, note come corralito (“financial fence”), per cui si limitavano i prelievi dai conti bancari. La politica economica di Cavallo è da molti considerata tra le principali cause di deindustrializzazione e dell’aumento di disoccupazione e povertà durante gli anni Novanta, come anche della crisi economica e dell’insolvenza del debito pubblico argentino.)
Il piano di salvataggio per la Grecia arriva ad assolvere la medesima funzione di “blindatura” organizzata da Cavallo con le banche internazionali, quella di utilizzare il denaro pubblico per finanziare la fuga dei capitali, e così le banche venivano messe al riparo dall’inevitabile default dell’Argentina.
Non c’è alcun dubbio che l’innesco decisivo al salvataggio-aggiustamento della Grecia è stato provocato dalla colossale mobilitazione delle masse della Grecia, che tutti i circoli finanziari davano per scontata e che si è manifestata con lo sciopero generale del 5 maggio.
Nella Grecia ipermilitarizzata, paese che spende per gli armamenti più di tutti nell’Unione Europea, la crisi ha fatto schierare nelle strade il personale della polizia e dell’esercito.

La bancarotta dell’Europa

Tuttavia,
nello stesso modo con cui ha messo in piena luce l’inevitabilità del collasso della Grecia, il piano di salvataggio ha messo a nudo il fatto che l’epicentro della bancarotta non si trova proprio in Grecia, ma in Germania e in Francia. 
L’evidenza che la crisi greca minacciava l’equilibrio delle banche pubbliche tedesche (Landesbank), ha costituito ciò che ha indotto precipitosamente la Cancelliera Merkel a decidersi per il piano di salvataggio, che fino a quel momento aveva respinto con ostinazione. Questo non è dovuto solamente al fatto che le banche tedesche sono fortemente esposte in Grecia: insomma, la Germania è soggetta ad un tasso di disoccupazione dei più elevati al mondo e ad un abbattimento impressionante di ore di lavoro e il suo debito pubblico arriva già al limite massimo consentito dagli accordi dell’Unione Europea. La Germania ha bisogno di denaro, in primo luogo, per se stessa.
Un altro indice della disperazione che ha determinato l’annuncio del piano di salvataggio è stata la decisione della Banca centrale europea di accettare i titoli “spazzatura” del debito greco (detenuti dalle banche locali) come garanzia per accordare dei prestiti in maniera diretta.
Si tratta chiaramente di una operazione di drenaggio del debito greco a beneficio delle banche locali e straniere che sono i creditori.
Il piano di salvataggio non è proprio un’operazione congiunta dell’Europa, ma si fonda su una collezione di prestiti alla Grecia da diversi paesi, fra cui la Spagna, Stato anch’esso in default (tanto sul piano pubblico che, specialmente, sul piano privato), che tuttavia appare nella lista dei salvatori della Grecia. È chiaro che un’operazione di questa natura non ha la possibilità di ripetersi nel caso in cui si rendesse necessaria per altri paesi; è per questo che assomiglia molto al colpo unico nel caricatore. Questo piano ha provocato una corrida speculativa contro i debiti pubblici di qualche altro paese.
L’Unione Europea è stata incapace di finanziare il salvataggio tramite il collocamento del suo proprio debito sui mercati, come hanno fatto, per esempio, gli Stati Uniti.
In altri termini, l’Europa manca degli strumenti di un salvataggio, una carenza che mette a nudo l’impotenza politica dell’Unione Europea. I Tedeschi ricorrono alle banche pubbliche per far fronte alla loro parte del prestito alla Grecia, e queste banche cercheranno di essere finanziate dalla Deutsche Bank e dalla Commerzbank, anche se in termini di precarietà.
Come abbiamo visto, in questa fase, la bancarotta della Grecia ha posto in pieno rilievo la portata della crisi del capitalismo in Europa nel suo complesso.  

Ciao, Keynes

Tuttavia, noi abbiamo ben compreso che la crisi, in questa fase, ha già una portata molto più larga. L’Europa è rimasta divisa in due gruppi di paesi, con la prospettiva che gli antagonismi fra essi possano via via esasperarsi.
I paesi che flirtano con il default avranno, da qui a poco, un prezzo da pagare in crescendo a causa  dei finanziamenti, che li allontanerà dagli Stati più solidi nelle ulteriori fasi dello sviluppo capitalistico. L’Unione Europea entra in una fase centrifuga.  
L’altra questione è non meno impressionante: si sta imponendo un programma deflazionista, come è successo nella crisi degli anni Trenta, rovinando le illusioni di una specie di kirchnerismo [la politica dei presidenti argentini Nestor e Cristina Kirchner] mondiale, che avrebbe dovuto assicurare che il capitalismo ritornava ad una fase di interventismo statalista e di keynesianesimo.
Benché qualsiasi giudizio a riguardo sia prematuro, la caduta della quotazione dell’oncia d’oro di questi ultimi giorni potrebbe solamente spiegarsi in funzione di una prospettiva deflazionistica.   
Per alcuni osservatori più qualificati, noi staremmo assistendo ad un piano di parziale smantellamento dell’Unione Europea sotta la bacchetta direttiva della Germania, che avrebbe guadagnato alla sua causa la Francia.
Sotto la pressione degli interessi delle esportazioni dell’industria tedesca, il governo della Germania promuove, in primo luogo, indirettamente attraverso il rifiuto del salvataggio dei Paesi del sud dell’Europa, una svalutazione dell’euro che consentirebbe agli esportatori tedeschi una migliore posizione competitiva rispetto agli Stati Uniti e alla Cina.
In secondo luogo, starebbe organizzando un’uscita nell’assetto delle nazioni sud-europee, che potrebbe anche includere l’Irlanda e il Belgio.
Pur avvenuto il dissolvimento dell’Unione Sovietica, lo smantellamento dell’Unione Europea si trasformerebbe nella testimonianza della disfatta capitalista.    
La lotta per il mercato mondiale ha sempre più peso nella crisi, come viene dimostrato dalla controversia cino-statunitense sulla quotazione dello yuan cinese. Malgrado le misure assunte da Obama per potenziare le esportazioni usamericane, queste non riescono a decollare e il deficit commerciale degli Stati Uniti (e per il medesimo motivo il suo debito con l’estero) non cessa di crescere.
In realtà, per numerosi osservatori, la Grecia non è altro che una metafora degli Stati Uniti, di cui il deficit fiscale, l’indebitamento pubblico e il debito nazionale sono, in termini relativi ed assoluti, i più elevati al mondo. Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, non pubblicato, gli USA dovrebbero essere costretti, per non subire il default, ad applicare un taglio di bilancio equivalente al 9% del loro PIL, vale a dire di 1,3 miliardi di dollari.
In mancanza di una tale amputazi
one, gli USA non potrebbero regolarizzare la loro situazione finanziaria, ossia aumentare i tassi di interesse (che attualmente sono a zero) senza condurre il settore pubblico al fallimento. Ecco la spiegazione del crollo di Wall Street durante tre giornate di seguito, sotto la pressione del fallimento della Grecia.  Per dipingere un quadro ancora più fosco, gli analisti sono d’accordo sul fatto che i guadagni annunciati dalle banche usamericane nel primo trimestre del 2010 testimoniano di una situazione del tutto simile a quella che ha provocato la bancarotta, a partire dal 2007, poiché questi guadagni provengono da operazioni speculative sostenute in una proporzione enorme dai debiti.
Da un lato, l’aumento del debito usamericano e, dall’altro, quello di emissione di moneta hanno prosciugato in gran parte le risorse e gli strumenti per far fronte alla spinta della tendenza deflazionista che è apparsa con la bancarotta europea. 
Una breve osservazione: la speculazione al ribasso contro il debito inglese è già cominciata.
La caduta del prezzo delle materie prime si è accompagnata con la caduta della quotazione dell’oro, fatto che pone un punto interrogativo sul “ricupero” del Sud dell’America Latina. D’altro canto, si è prodotto un forte ritiro di capitali, testimoniato dal crollo delle borse di Buenos Aires e di San Paolo.
Il fatto che, addirittura prima che la Grecia vada in pezzi, sia in corso in Cina ed in Asia una tendenza finanziaria negativa, come conseguenza del freno che il governo cinese tenta di imporre ai prestiti bancari, alla speculazione immobiliare a borsistica.
Il fatto che i prestiti inesigibili delle banche, che sono stati accordati per contrastare la recessione (che si era brutalmente manifestata all’inizio del 2009), superino il 25% degli attivi, la percentuale più alta al mondo.
Le virate e i contraccolpi della crisi capitalista sono la prova del franare delle relazioni sociali esistenti.
Ed ora, che fare? Come proclamato da uno striscione issato sull’Acropoli, curiosamente dal partito che meno si poteva pensare, il partito stalinista greco: “Peoples of Europe – RISE UP” Popoli di Europa – SOLLEVATEVI!


Originale da: Grecia: “La última etapa de la crisis”Articolo originale pubblicato il 5-5-2010
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Tlaxcala
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martedì 25 maggio 2010

Sosteniamo la resistenza del popolo greco contro la dittatura dei creditori!

Comitato per l’Annullamento del Debito del Terzo Mondo (CADTM), 3-5-2010. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala
Il nuovo piano di austerità annunciato domenica 2 maggio è un’autentica catastrofe per la popolazione greca, per i salariati del privato come del pubblico, per i pensionati e per coloro che hanno perso il lavoro.


  • Congelamento dei salari e delle pensioni della funzione pubblica per 5 anni;
  • Soppressione dell’equivalente di 2 mesi di stipendio per i funzionari;  
  • Diminuzione dell’8% delle loro indennità già amputate del 12% dal precedente piano di austerità del governo guidato dal PASOK (Movimento Socialista Panellenico) ;
  • L’imposta principale dell’IVA che, dopo essere passata dal 19 al 21%, viene portata al 23%, (anche le altre tasse subiscono un incremento, dal 5 al 5.5% e dal 10 all’11%); 
  • Le tasse sui carburanti, sugli alcolici e sui tabacchi aumentano per la seconda volta in un mese del 10%;
  • I pensionamenti anticipati (collegati alla perdita del lavoro) sono vietati prima dell’età di 60 anni;   L’età per legge dell’andata in pensione delle donne è portata dai 60 ai 65 anni entro il 2013;
  • Per gli uomini, l’età legale dipenderà dalla speranza di vita;
  • Saranno necessari 40 anni di lavoro (e non più 37, salvo studi e disoccupazione) per ottenere una pensione ad importo pieno;
  • Questa pensione verrà calcolata non più in funzione dell’ultimo salario ma secondo il salario medio sulla totalità degli anni lavorati (equivalente ad un abbassamento dell’ammontare della pensione del 45 fino al 60%) 
  • Lo Stato ridurrà le sue spese di funzionamento (sanità, istruzione) di 1,5 miliardi di euro.
  • Gli investimenti pubblici verranno ridotti ancora di 1,5 miliardi di euro.  
  • Viene creato un nuovo salario minimo per i giovani e per i disoccupati di lunga durata (equivalente al CPE francese, la legge sul contratto di primo impiego che, a detta dei sindacati e delle stesse associazioni giovanili, penalizza fortemente il primo lavoro e aumenta il precariato dei giovani,  respinta in Francia dai giovani e dai sindacati).




    Insalata greca, di Emad Hajjaj, Al Quds Al Araby
Miliardi di euro per salvare la Grecia dalla sua crisi monetaria: si tratta di una cuccagna per i mercati finanziari e il capitale!  

  • I trasporti, l’energia e alcune professioni riservate allo Stato dovranno essere liberalizzate e aprirsi alle privatizzazioni; 
  • Il settore finanziario (le banche in particolare) beneficierà di un fondo di sostegno con l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Europea; 
  • La flessibilità del lavoro sarà rafforzata;
  • I licenziamenti verranno facilitati;
      L’economia greca viene posta sotto il controllo del Fondo Monetario Internazionale.
La Grecia, restando nella zona dell’euro, non potrà svalutare la sua moneta, né giocare sui tassi di interesse. Neppure il debito potrà essere ristrutturato, le istituzioni finanziarie europee ne detengono i due terzi. Queste stesse banche continueranno ad attingere denaro dalla Banca Centrale europea ad un tasso dell’1% per prestarlo agli Stati (dietro remunerazione!).
Per contropartita a queste misure, i paesi della zona euro, uno ad uno, stanno prestando aiuto da 100 a 135 miliardi di euro alla Grecia nell’arco di 3 anni, ad un tasso del 5% (45 miliardi solo per quest’anno). Dunque, gli Stati ricchi e le banche guadagneranno soldi sulle spalle del popolo greco. Christine Lagarde, ministra delle finanze francese, prevede un utile di profitto pari a 150 milioni di euro all’anno.  Con questa operazione andranno ad accrescere il debito pubblico per consentire allo Stato greco di pagare i suoi creditori speculatori!

La crisi greca è la dimostrazione a grandezza naturale della tripla pericolosità del Fondo Monetario Internazionale, dell’Unione Europea e dei mercati finanziari.  
Il FMI, screditato a giusto titolo per i suoi catastrofici “piani di aggiustamento strutturali”, ritorna a galla nella zona euro, dopo avere infierito in questi ultimi due anni in molti paesi dell’Europa orientale.  Oggi, il Fondo utilizza le medesime procedure messe in atto ieri conformemente agli interessi dei medesimi suoi sponsor: i mercati finanziari e le multinazionali. Oggi, come ieri, questa è la sua autentica natura di pompiere piromane che si rende manifesta alla luce piena del sole.  L’Unione Europea e la sua commissione hanno in ugual modo riaffermato i loro paradigmi al servizio della “libera concorrenza, non falsata”. La Banca Centrale Europea non è al servizio delle popolazioni di Europa, ma unicamenteque a quello delle banche e degli organismi finanziari.
I mercati finanziari, dopo avere provocato e fatto precipitare la crisi greca, attraverso le agenzie di rating remunerate dalle grandi banche statunitensi, esigono trarre ancor più profitti dalle loro strategie speculative. Il governo del PASOK, l’Unione Europea e il FMI hanno fornito loro l’occasione su un piatto d’argento.  

Alle spalle dell’industria finanziaria ci sono le multinazionali dell’industria, del commercio, dei servizi.
Se stiamo stigmatizzando a ragione i fondi speculativi, le agenzie di rating e l’industria finanziaria, noi non perdiamo di vista che tutto questo non è altro che l’albero che nasconde la foresta! Questa sfrenata speculazione che strangola le popolazioni povere è stata resa possibile per due ragioni principali:

  • Le deregolamentazioni successive dei mercati finanziari dopo gli anni ottanta del secolo scorso;
  • Le scelte volontarie e coscienti del grande padronato di destinare i loro nuovi profitti alla speculazione piuttosto che verso la produzione e la creazione di posti di lavoro. E questa accumulazione di nuovi profitti trova la sua origine nella recente ripartizione della ricchezza a beneficio del profitto e a detrimento della parte spettante ai salariati. Questa parte è diminuita di circa il 10% del PIL in 25 anni nella media dell’insieme dei paesi sviluppati.
    Questo orientamento economico, sostenuto dall’ideologia neoliberista, è la causa principale della crisi economica e finanziaria che noi oggi abbiamo sotto gli occhi.
Anche i differenti governi che si sono succeduti nel corso di 30 anni, in Grecia come negli altri paesi del Nord del mondo, portano una parte pesante di responsabilità nell’aumento dei debiti pubblici. Le politiche fiscali, condotte in favore dei benestanti più agiati e delle grandi imprese (imposta sul reddito, imposta patrimoniale e imposta sulle società), hanno diminuito in maniera considerevole le entrate di bilancio ed aggravato il deficit pubblico, obbligando gli Stati ad accrescere il loro indebitamento.

I responsabili della crisi vengono risparmiati ed è alla gente che viene presentato il conto.  
Nel piano di austerità congegnato da PASOK-UE-FMI ed imposto al popolo greco in pratica è possibile riscontrare la presenza solo di piccoli provvedimenti senza effetto per stabilire l’inizio di una giustizia fiscale e assolutamente nulla per combattere l’evasione fiscale dei profitti delle grandi imprese.  Le “soluzioni” del PASOK, dell’UE e del FMI precipitano la Grecia verso l’approfondimento della sua crisi. Per il 2010 viene già programmata una recessione minimale di 4 punti del PIL. I piccoli artigiani e i commercianti, le piccole imprese dovranno affrontare una lunga serie di fallimenti e di blocchi delle attività. La disoccupazione sta esplodendo e gli strati popolari e le classi medie stanno riscontrando che il loro potere di acquisto sta precipitando in caduta libera. Le ineguaglianze si stanno accrescendo e i diritti umani fondamentali (accesso all’energia, all’acqua, alla sanità, all’istruzione…) sono minacciati per la parte più povera della popolazione.
La collera del popolo della Grecia è anche la nostra.
Il CADTM sostiene senza riserve le mobilitazioni contro il piano di austerità.

Esistono soluzioni alternative!

  • Il rimborso del debito pubblico della Grecia deve essere immediatamente sospeso e deve essere condotta una pubblica inchiesta per decidere della sua legittimità o della sua illegittimità. 
  • Devono essere prese misure di abrogazione e i proventi finanziari dal debito devono essere tassati alla fonte al tasso massimo dell’imposta sui redditi.
  • Provvedimenti fiscali possono essere assunti immediatamente per ristabilire la giustizia fiscale e per la lotta contro l’evasione fraudolenta. All’oggi, secondo le valutazioni del Tesoro greco, i funzionari (designati come capri espiatori) e gli operai dichiarano profitti maggiori di quelli dei liberi professionisti (medici, farmacisti, avvocati) o perfino dei banchieri!
La quasi totalità delle grandi imprese (armatori, …) dichiarano i loro profitti in paesi a fiscalità vantaggiosa (particolarmente a Cipro) o li nascondono nei paradisi fiscali.
La Chiesa ortodossa continua a beneficiare di esorbitanti esoneri fiscali sui patrimoni e sulle rendite immobiliari. Esiste denaro in Grecia, ma non là dove il piano di austerità lo vuole prendere!
Al CADTM, noi siamo solidali con il popolo greco che scenderà in sciopero generale il 5 maggio prossimo. Dappertutto, in Grecia come negli altri paesi europei, la solidarietà per la mobilitazione deve allargarsi. Attualmente, è la Grecia sotto tiro ma tutti sanno che domani può toccare al Portogallo, all’Irlanda o alla Spagna. In seguito, tutta la zona euro può capitombolare, compresi i paesi più “ricchi” di Europa.
Noi ci rallegriamo per le prime dichiarazioni di solidarietà e per l’inizio delle mobilitazioni di sostegno davanti alle ambasciate greche. Bisogna andare più lontano! Il movimento sociale europeo nel suo complesso deve stare a fianco del popolo greco! I popoli di Europa hanno tutto da guadagnare! Il CADTM, per quanto possibile porterà il suo contributo!

Originale da: Soutien à la résistance du peuple grec contre la dictature des créanciers !
Articolo originale pubblicato il 3-5-2010
L’autore

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martedì 11 maggio 2010

Presagio di grandi catastrofi

di  Míkis THEODORÁKIS Μίκης ΘΕΟΔΩΡΑΚΗΣ, 27-4-2010. Tradotto da  Curzio Bettio, Tlaxcala 
   
Con il buon senso di cui dispongo, non posso spiegarmi e ancor meno giustificare la rapidità con cui il nostro paese è precipitato rispetto ai livelli del 2009, al punto tale che noi stiamo perdendo una parte della nostra sovranità nazionale a vantaggio del Fondo Monetario Internazionale FMI e veniamo posti sotto tutela.

Ed è strano che nessuno, fino a questo momento, abbia fatto la cosa più semplice, vale a dire, risalire il corso della nostra economia a partire da quel periodo ad oggi, con fatti e cifre, in modo che noi, i non iniziati, abbiamo la possibilità di comprendere le effettive ragioni di questa evoluzione vertiginosa e senza precedenti degli accadimenti che hanno determinato la perdita della nostra indipendenza nazionale, accompagnata dall’umiliazione internazionale che dobbiamo subire.
Ho sentito parlare di un debito di 360 miliardi, ma nello stesso tempo vedo che molti altri paesi hanno debiti simili a questo, se non ancora più grandi.
Dunque, non può essere questa la ragione principale delle nostre disgrazie. Quello che allo stesso modo mi disturba è l’elemento di esagerazione nei colpi assestati al nostro paese a livello internazionale; che una azione di tale misura sia stata concertata in modo così palese contro un paese finanziariamente insignificante, questo desta sospetti.
Per questo, sono pervenuto alla conclusione che certi personaggi ci riversano addosso vergogna e paura, in modo da gettarci nelle spire del FMI, che costituisce un fattore fondamentale della politica espansionistica degli Stati Uniti.
Tutti i discorsi sulla solidarietà europea non sono stati che polvere negli occhi, in modo da dissimulare il fatto che si tratta chiaramente di una iniziativa usamericana, che mira a farci piombare in una crisi finanziaria largamente artificiosa, con lo scopo di far vivere il nostro popolo nella paura, di renderlo ancora più povero, di sottrargli realizzazioni e conquiste preziose e alla fine di metterlo in ginocchio, consenziente perché costretto ad essere dominato dagli stranieri.
Ma a chi serve tutto questo? Quali sono i progetti da realizzare, quali sono gli obiettivi da conseguire?

Benché sia sempre stato, e che lo sia ancora, partigiano dell’amicizia greco-turca, devo dire nondimeno di essere preoccupato per il rafforzamento improvviso delle relazioni fra i nostri due governi, per le riunioni dei ministri e di altri funzionari, per i movimenti a Cipro e la visita del Sig. Erdogan. Io sospetto che dietro a tutto questo si celino la politica degli Stati Uniti e i loro progetti, che destano sospetti, relativi alla nostra posizione geografica, all’esistenza di giacimenti sottomarini, al regime di Cipro e al mare Egeo, ai nostri confinanti del Nord e al comportamento arrogante della Turchia; piani che fino a questo momento sono andati a vuoto solamente per la diffidenza e l’opposizione del popolo greco.
Attorno a noi, tutti, chi più chi meno, sono saliti sul carro in movimento degli Stati Uniti. Noi soli abbiamo rappresentato l’unica nota stonata, noi che, dall’insediamento della giunta militare e dalla perdita del 40% di Cipro fino all’abbraccio con Skopje (ARYM – ex Repubblica jugoslava di Macedonia) e con gli ultranazionalisti albanesi, abbiamo ricevuto bastonate di continuo, ma non siamo ancora divenuti “ragionevoli”.

Di conseguenza, come popolo, dobbiamo essere soppressi, e questo è esattamente quello che sta arrivando oggi. Io sfido gli economisti, i politici e gli analisti a provarmi il contrario. Io credo che non ci sia spiegazione plausibile, altro che quella di un complotto internazionale, con la partecipazione degli Europei filo-statunitensi, come la signora Merkel, la Banca Centrale europea e la stampa reazionaria internazionale, che hanno progettato il loro “gran colpo”, in modo da ridurre una nazione libera in schiavitù. Quanto meno, personalmente, non posso trovare proprio un’altra spiegazione. Comunque, io riconosco che non sono in possesso di conoscenze specifiche e che le mie parole poggiano solo sul buon senso. Ma potrebbe darsi che ci siano tante altre persone che sono pervenute alla medesima conclusione – e questo lo vedremo nei giorni a venire.

In ogni caso, resto fermo nel preparare l’opinione pubblica e a sottolineare che, se la mia analisi è giusta, allora la crisi finanziaria (la quale, come ho già affermato, ci è stata imposta) non è altro che la prima bibita amara nella festa sontuosa che si sta preparando e che questa volta riguarderà questioni nazionali tanto vitali che non desidero proprio immaginare dove questo ci condurrà.

Spero di ingannarmi!

lunedì 10 maggio 2010

Voi siete responsabili

di Un dipendente della Marfin Bank, Atene, 5-5-2010
Sento l'obbligo, riguardo i miei colleghi che sono morti ingiustamente oggi, di parlare chiaro e di dire delle verità oggettive. Sto inviando questo messaggio a tutti i media. Qualcuno che mostri ancora un po di coscienza potrebbe pubblicarlo. I restanti possono continuare a tenere gioco al governo.
I pompieri non hanno mai rilasciato alcuna licenza operativa per l'edificio in questione. L'accordo per operare era sottobanco, come praticamente succede per ogni azienda e compagnia in Grecia.

L'edificio in questione non ha nessun meccanismo di sicurezza anti-incendio, nè pianificati nè istallati, non ha spruzzatori a soffitto, uscite d'emergenza o idranti. Ci sono solo degli estintori che, naturalmente, non possono essere d'aiuto quando hai a che fare con incendi estesi in un edificio che è stato costruito con standard di sicurezza ormai obsoleti.

Nessuna filiale della banca Marfin ha membri dello staff addestrati per casi di incendio, e nemmeno all'uso dei pochi estintori presenti. La dirigenza usa addirittura come un pretesto l'alto costo di un simile addestramento e non prende le misure basilari per proteggere il suo staff.

Non c'è mai stata una singola esercitazione di evacuazione in nessun edificio da parte dei lavoratori, nè c'è stata alcuna sessione di addestramento da parte dei pompieri per dare istruzioni su come comportarsi in situazioni come queste. Le uniche sessioni di addestramento che hanno avuto luogo alla Marfin Bank riguardano scenari di azioni terroristiche e specificatamente la pianificazione della fuga dei dirigenti della banca dai loro uffici in situazioni del genere.

L'edificio in questione non ha speciali stanze per ripararsi nei casi di incendio, nonostante la sua struttura sia veramente vulnerabile in simili circostanze e nonostante fosse riempita di materiali dal pavimento al soffitto. Materiali che sono molto infiammabili, come carta, plastica, cavi, mobili. L'edifcio è oggettivamente non idoneo ad ospitare una banca proprio a causa della sua costruzione.

Nessun membro della sicurezza ha alcuna conoscenza di primo soccorso o di spegnimento di incendi, nonostante siano praticamente sempre incaricati della sicurezza dell'edifcio. Gli impiegati della banca devono trasformarsi in pompieri o security in base ai capricci del signor Vgenopoulos [padrone della banca].

La dirigenza della banca ha diffidato gli impiegati dall'andarsene oggi, nonostante lo abbiano persistentemente chiesto autonomamente fin da questa mattina presto - mentre hanno anche costretto i dipendenti a bloccare le porte e hanno più volte confermato al telefono che l'edificio sarebbe rimasto chiuso tutto il giorno. Hanno anche bloccato l'accesso a internet per evitare che gli impiegati comunicassero con il mondo esterno.

Da diversi giorni c'è stato un completo terrorizzare gli impiegati riguardo alle mobilitazioni di questi giorni con la "proposta" a voce: o lavori o sei licenziato!

I due poliziotti in borghese che sono in servizio nella filiale in questione per prevenire eventuali rapine non si sono fatti vedere oggi, nonostante la dirigenza della banca abbia verbalmente promesso agli impiegati che sarebbero stati presenti.

E per concludere, signori, fate dell'autocritica e smettetela di delirare fingendo di essere scioccati. Voi siete responsabili di quello che è successo oggi e in ogni stato legittimo (come quelli che vi piace citare di tanto in tanto come esempio da seguire nei vostri show televisivi) sareste stati già arrestati per le questioni di cui sopra. I miei colleghi oggi hanno perso le loro vite per cattiveria: la cattiveria della Marfin Bank a del signor Vgenopoulos che ha affermato esplicitamente che chiunque non sarebbe venuto al lavoro oggi (giorno di sciopero generale) avrebbe fatto meglio a non presentarsi al lavoro domani.

“Prestano paura et riscuotono regali”
Il Nonno
Foto
Tilemahos Efthimiadis
Andreas Vgenopoulos, il padrone della  Marfin Bank, lascia l'agenzia dov'è avvenuto l'incendio, sotto forte scorta poliziesca: l'uomo, conosciuto per essere proprietario di 3 yacht, ne ha davvero bisogno!



Fonte di questa traduzione: http://roma.indymedia.org/node/19988
Articolo originale pubblicato il 5 Maggio 2010

Tlaxcala
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