mercoledì 26 maggio 2010

Grecia, “l’ultima tappa della crisi”

di Jorge Altamira, 5/5/2010. Tradotto da Curzio Bettio, Tlaxcala

Paradosso crudele. È bastato che l’operazione di salvataggio, talmente reclamizzata, della Grecia venisse resa nota che, nel giro di poco più di 24 ore, appariva come evidente che il default (il crollo con la conseguente cessazione dei pagamenti) della Grecia fosse inevitabile. Il raddoppio della somma assegnata al salvataggio, da 60 a 120 miliardi di euro, causava l’effetto opposto a quello che ci si attendeva, dato che la dimensione dell’operazione metteva in rilievo l’insolvibilità dello Stato greco. 
La ripercussione internazionale del naufragio ellenico è stata impressionante: il crollo delle Borse di  Madrid o di Milano è stato catastrofico, ma nemmeno quelle di New York, di Shangaï o di San Paolo sono state risparmiate
Il crollo della Grecia traccia una linea di separazione nei percorsi della bancarotta capitalistica  mondiale: la prima fase va dalla crisi della banca d’investimenti usamericana Bear and Stern, nel luglio 2007, fino al fallimento della Lehman Brothers, nel settembre 2008; la seconda fase si estende da questa data all’incombente default della Grecia che è andato a svilupparsi in questi giorni. 
Ciò che gli analisti anglo-sassoni denominano come counterparty risk, vale a dire la minaccia di bancarotte finanziarie, ritorna sul palcoscenico del teatro, fatto che si pensava superato grazie alle emissioni massicce di denaro da parte delle banche centrali, specialmente negli Stati Uniti ed in Cina.

Un “aggiustamento” criminale

La causa fondamentale del fallimento del piano di salvataggio, addirittura prima che questo venga messo in opera, deriva dall’aggiustamento mostruoso che viene imposto al popolo greco.
La gigantesca limitazione del potere di acquisto della popolazione, a causa delle riduzioni dei salari e delle pensioni; degli aumenti siderali delle tasse sui generi di consumo; dei tagli enormi alle spese sociali; presagisce un acuto inasprimento della recessione economica, che non può se non aggravare l’incapacità da parte dell’erario ad onorare il debito pubblico.
Precisamente per questo, si stima che il debito dovrebbe aumentare nel periodo dell’aggiustamento, non solamente in proporzione al PIL ma anche in valore assoluto (come conseguenza della necessità di dovere pagare dei tassi di interesse molto superiori rispetto alla media dei mercati internazionali). Detto altrimenti, la miseria sociale si accompagnerà ad una accentuazione della vulnerabilità fiscale e finanziaria. La parte essenziale del debito pubblico della Grecia si trova nelle mani delle banche nazionali, quantunque dominate dalle banche francesi e tedesche. Questa situazione ha già provocato una corsa al ritiro dei depositi e alla fuga dei capitali (verso il paradiso fiscale di Cipro).

In Argentina, nel 2001, quando il titolare del ministero dell’Economia era López Murphy, questo ministro aveva tentato una simile operazione deflazionista, benché in proporzioni infinitamente minori. Grazie alla resistenza popolare, il suo fallimento ha suonato la fine del “prima-dell’ultima fase-della crisi” e comunque ha dato la stura all’“ultima” fase, quella di Cavallo.
(N.d.tr.: Domingo Cavallo, è noto per il piano di convertibilità che ha stabilito il rapporto di parità tra il dollaro americano e il peso argentino tra il 1991 e 2001. Tale piano ha ridotto l’inflazione da oltre il 1300% nel 1990 a meno del 20% nel 1992 fino a quasi lo zero nel resto degli anni Novanta, salvo poi provocare l’insolvenza del debito pubblico argentino. Nel 2001 chiamato dal presidente De la Rúa a fare il ministro dell’economia, rinegozia il debito estero con il FMI. La crescita del rischio-paese e la pressione degli investitori internazionali provocano una corsa al ritiro dei capitali dalle banche e alla fuga all’estero dei capitali. Nel novembre 2001, Cavallo introduce una serie di misure per limitare l’uso dei contanti, note come corralito (“financial fence”), per cui si limitavano i prelievi dai conti bancari. La politica economica di Cavallo è da molti considerata tra le principali cause di deindustrializzazione e dell’aumento di disoccupazione e povertà durante gli anni Novanta, come anche della crisi economica e dell’insolvenza del debito pubblico argentino.)
Il piano di salvataggio per la Grecia arriva ad assolvere la medesima funzione di “blindatura” organizzata da Cavallo con le banche internazionali, quella di utilizzare il denaro pubblico per finanziare la fuga dei capitali, e così le banche venivano messe al riparo dall’inevitabile default dell’Argentina.
Non c’è alcun dubbio che l’innesco decisivo al salvataggio-aggiustamento della Grecia è stato provocato dalla colossale mobilitazione delle masse della Grecia, che tutti i circoli finanziari davano per scontata e che si è manifestata con lo sciopero generale del 5 maggio.
Nella Grecia ipermilitarizzata, paese che spende per gli armamenti più di tutti nell’Unione Europea, la crisi ha fatto schierare nelle strade il personale della polizia e dell’esercito.

La bancarotta dell’Europa

Tuttavia,
nello stesso modo con cui ha messo in piena luce l’inevitabilità del collasso della Grecia, il piano di salvataggio ha messo a nudo il fatto che l’epicentro della bancarotta non si trova proprio in Grecia, ma in Germania e in Francia. 
L’evidenza che la crisi greca minacciava l’equilibrio delle banche pubbliche tedesche (Landesbank), ha costituito ciò che ha indotto precipitosamente la Cancelliera Merkel a decidersi per il piano di salvataggio, che fino a quel momento aveva respinto con ostinazione. Questo non è dovuto solamente al fatto che le banche tedesche sono fortemente esposte in Grecia: insomma, la Germania è soggetta ad un tasso di disoccupazione dei più elevati al mondo e ad un abbattimento impressionante di ore di lavoro e il suo debito pubblico arriva già al limite massimo consentito dagli accordi dell’Unione Europea. La Germania ha bisogno di denaro, in primo luogo, per se stessa.
Un altro indice della disperazione che ha determinato l’annuncio del piano di salvataggio è stata la decisione della Banca centrale europea di accettare i titoli “spazzatura” del debito greco (detenuti dalle banche locali) come garanzia per accordare dei prestiti in maniera diretta.
Si tratta chiaramente di una operazione di drenaggio del debito greco a beneficio delle banche locali e straniere che sono i creditori.
Il piano di salvataggio non è proprio un’operazione congiunta dell’Europa, ma si fonda su una collezione di prestiti alla Grecia da diversi paesi, fra cui la Spagna, Stato anch’esso in default (tanto sul piano pubblico che, specialmente, sul piano privato), che tuttavia appare nella lista dei salvatori della Grecia. È chiaro che un’operazione di questa natura non ha la possibilità di ripetersi nel caso in cui si rendesse necessaria per altri paesi; è per questo che assomiglia molto al colpo unico nel caricatore. Questo piano ha provocato una corrida speculativa contro i debiti pubblici di qualche altro paese.
L’Unione Europea è stata incapace di finanziare il salvataggio tramite il collocamento del suo proprio debito sui mercati, come hanno fatto, per esempio, gli Stati Uniti.
In altri termini, l’Europa manca degli strumenti di un salvataggio, una carenza che mette a nudo l’impotenza politica dell’Unione Europea. I Tedeschi ricorrono alle banche pubbliche per far fronte alla loro parte del prestito alla Grecia, e queste banche cercheranno di essere finanziate dalla Deutsche Bank e dalla Commerzbank, anche se in termini di precarietà.
Come abbiamo visto, in questa fase, la bancarotta della Grecia ha posto in pieno rilievo la portata della crisi del capitalismo in Europa nel suo complesso.  

Ciao, Keynes

Tuttavia, noi abbiamo ben compreso che la crisi, in questa fase, ha già una portata molto più larga. L’Europa è rimasta divisa in due gruppi di paesi, con la prospettiva che gli antagonismi fra essi possano via via esasperarsi.
I paesi che flirtano con il default avranno, da qui a poco, un prezzo da pagare in crescendo a causa  dei finanziamenti, che li allontanerà dagli Stati più solidi nelle ulteriori fasi dello sviluppo capitalistico. L’Unione Europea entra in una fase centrifuga.  
L’altra questione è non meno impressionante: si sta imponendo un programma deflazionista, come è successo nella crisi degli anni Trenta, rovinando le illusioni di una specie di kirchnerismo [la politica dei presidenti argentini Nestor e Cristina Kirchner] mondiale, che avrebbe dovuto assicurare che il capitalismo ritornava ad una fase di interventismo statalista e di keynesianesimo.
Benché qualsiasi giudizio a riguardo sia prematuro, la caduta della quotazione dell’oncia d’oro di questi ultimi giorni potrebbe solamente spiegarsi in funzione di una prospettiva deflazionistica.   
Per alcuni osservatori più qualificati, noi staremmo assistendo ad un piano di parziale smantellamento dell’Unione Europea sotta la bacchetta direttiva della Germania, che avrebbe guadagnato alla sua causa la Francia.
Sotto la pressione degli interessi delle esportazioni dell’industria tedesca, il governo della Germania promuove, in primo luogo, indirettamente attraverso il rifiuto del salvataggio dei Paesi del sud dell’Europa, una svalutazione dell’euro che consentirebbe agli esportatori tedeschi una migliore posizione competitiva rispetto agli Stati Uniti e alla Cina.
In secondo luogo, starebbe organizzando un’uscita nell’assetto delle nazioni sud-europee, che potrebbe anche includere l’Irlanda e il Belgio.
Pur avvenuto il dissolvimento dell’Unione Sovietica, lo smantellamento dell’Unione Europea si trasformerebbe nella testimonianza della disfatta capitalista.    
La lotta per il mercato mondiale ha sempre più peso nella crisi, come viene dimostrato dalla controversia cino-statunitense sulla quotazione dello yuan cinese. Malgrado le misure assunte da Obama per potenziare le esportazioni usamericane, queste non riescono a decollare e il deficit commerciale degli Stati Uniti (e per il medesimo motivo il suo debito con l’estero) non cessa di crescere.
In realtà, per numerosi osservatori, la Grecia non è altro che una metafora degli Stati Uniti, di cui il deficit fiscale, l’indebitamento pubblico e il debito nazionale sono, in termini relativi ed assoluti, i più elevati al mondo. Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, non pubblicato, gli USA dovrebbero essere costretti, per non subire il default, ad applicare un taglio di bilancio equivalente al 9% del loro PIL, vale a dire di 1,3 miliardi di dollari.
In mancanza di una tale amputazi
one, gli USA non potrebbero regolarizzare la loro situazione finanziaria, ossia aumentare i tassi di interesse (che attualmente sono a zero) senza condurre il settore pubblico al fallimento. Ecco la spiegazione del crollo di Wall Street durante tre giornate di seguito, sotto la pressione del fallimento della Grecia.  Per dipingere un quadro ancora più fosco, gli analisti sono d’accordo sul fatto che i guadagni annunciati dalle banche usamericane nel primo trimestre del 2010 testimoniano di una situazione del tutto simile a quella che ha provocato la bancarotta, a partire dal 2007, poiché questi guadagni provengono da operazioni speculative sostenute in una proporzione enorme dai debiti.
Da un lato, l’aumento del debito usamericano e, dall’altro, quello di emissione di moneta hanno prosciugato in gran parte le risorse e gli strumenti per far fronte alla spinta della tendenza deflazionista che è apparsa con la bancarotta europea. 
Una breve osservazione: la speculazione al ribasso contro il debito inglese è già cominciata.
La caduta del prezzo delle materie prime si è accompagnata con la caduta della quotazione dell’oro, fatto che pone un punto interrogativo sul “ricupero” del Sud dell’America Latina. D’altro canto, si è prodotto un forte ritiro di capitali, testimoniato dal crollo delle borse di Buenos Aires e di San Paolo.
Il fatto che, addirittura prima che la Grecia vada in pezzi, sia in corso in Cina ed in Asia una tendenza finanziaria negativa, come conseguenza del freno che il governo cinese tenta di imporre ai prestiti bancari, alla speculazione immobiliare a borsistica.
Il fatto che i prestiti inesigibili delle banche, che sono stati accordati per contrastare la recessione (che si era brutalmente manifestata all’inizio del 2009), superino il 25% degli attivi, la percentuale più alta al mondo.
Le virate e i contraccolpi della crisi capitalista sono la prova del franare delle relazioni sociali esistenti.
Ed ora, che fare? Come proclamato da uno striscione issato sull’Acropoli, curiosamente dal partito che meno si poteva pensare, il partito stalinista greco: “Peoples of Europe – RISE UP” Popoli di Europa – SOLLEVATEVI!


Originale da: Grecia: “La última etapa de la crisis”Articolo originale pubblicato il 5-5-2010
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